Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
Il tempo scandito dalle nostre costruzioni mentali è il ritmo concitato che si contrappone al tranquillo battito del mondo. La cosiddetta civiltà ingabbia le spontanee manifestazioni della natura in quei nodi cerebrali che sono i concetti, e per i quali inventa espressioni artificiose, del tutto incapaci di restituire la poetica semplicità del creato e dei rudimentali strumenti con cui l'uomo primitivo ha cercato di utilizzarne i frutti, ponendosi in armonia con esso. La scienza diventa insidiosa come la superstizione quando, trasformandosi in mito intellettuale, ci proibisce di sottometterci all'evidenza e di arrenderci alla limitatezza del nostro raziocinio; essa diviene allora un potere perverso, che combatte con mezzi ingannatori la nostra istintiva tendenza ad aderire pacificamente alla realtà sensibile. In questo cortometraggio, ad immagini di vita agreste si sovrappone, a mo' di filastrocca, un elenco alfabetico di parole, in cui, alla lettera H, un termine comune ed elementare come house è affiancato da sostantivi tratti dal gergo medico, come hemophilia e hysteria, o chimico, come helium, o matematico, come helix. L'uomo non si accontenta di dare nomi alle parti del suo corpo (head, haunch), o agli oggetti della sua quotidianità (hammer, hammock), bensì vuole escogitare nuovi linguaggi per confrontare, distinguere, raggruppare. Egli è il conquistatore universale, che suddivide il cosmo in territori secondo la surrettizia geografia dell'astrazione, applicando, a qualunque prodotto del proprio pensiero, l'etichetta della classificazione enciclopedica. Questo tema - che Greenaway riprende dalla sua precedente opera Intervals – assume qui connotati polemici e satirici: il bersaglio della critica siamo noi, con la nostra visione antropocentrica, che ci porta, metaforicamente, a ritenere che il ciclo del sole sia fatto a nostro uso e consumo, per orientare il decorso delle nostre giornate, o ricaricare la batteria con cui funzionano i nostri occhi.
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