Regia di Woody Allen vedi scheda film
Quando la musica di Gershwin esplode contro lo “skyline” di Manhattan, abbiamo la sensazione che quell’immagine sia, non solo una fusione esemplare della commedia del passato e di quella anni ’70, ma addirittura una delle venti cose per le quali vale la pena di vivere (elencate dal protagonista, in una scena verso la fine del film). Nel 1979, “Manhattan” fu il punto di non ritorno della commedia di amarezze sentimentali di Woody Allen, che aveva già raggiunto il culmine con “Io e Annie”, ma che qui radicalizza la propria ilare, nevrotica incapacità di vivere e, inaugurando l’uso del bianco e nero, consegna le sue coppie in crisi e i suoi incontri spezzati all’universo del cinema classico. Un film che non ha un elemento ridondante o fuori posto: una Diane Keaton “magica”, fotografia perfetta di Gordon Willis, una sceneggiatura che ha la precisione dell’apparente casualità. New York guida i ritmi degli incontri e degli addii, con la sua solitaria inafferrabilità dà la dimensione psicologica al film. Che, sotto sotto, è di una malinconia infinita.
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