Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Michael Peterson, britannico, classe 1952. Autorinominatosi Charles Bronson, in omaggio al giustiziere della notte americano, per la sua insopprimibile attitudine alla violenza ha trascorso – trascorre in questo preciso momento - quasi interamente gli ultimi 37 anni di vita in prigione. In gabbia ne ha combinate di tutti i colori, dal prendere in ostaggio guardie e altri prigionieri in azioni spettacolari e sconsiderate, fino a dipingere e vendere dal carcere le proprie opere d'arte. Arrestato inizialmente per rapina a mano armata, la sua passione è però lo scontro fisico che perpetua con grande impegno e dedizione. Il sogno più grande di Michael Bronson Peterson è sempre stato quello di diventare famoso sfruttando l’unico talento che mamma natura gli ha donato: la passione per il crimine.
Nicolas Winding Refn fresco vincitore a Cannes 2011 come miglior regista per Drive, è il più talentuoso e fresco autore europeo. Per noi, invisibile. I suoi film, a partire dalla trilogia di Pusher vista solo in Dvd non hanno mai avuto distribuzione in Italia. Bronson è un film del 2008, omaggio che Refn ha concesso alla star britannica del crimine realizzando così il suo sogno di celebrità. Bronson è un’opera potente e stilizzata, il teatro della violenza visto dalla parte di un protagonista manovrato e gestito come un cartoon di Tex Avery, bidimensionale e grottesco, caricaturale nel proporre una macchietta di lucida follia. Bronson le prende e le dà, cade e si rialza, rimbalza ricade e si rialza ancora. Sospeso tra commedia e tragedia, Refn costrusce il personaggio sul corpo di Tom Hardy, sulla sua possenza e sulla sua inadeguatezza verso il mondo che abita dalle movenze innaturali come se fosse il protagonista di un videogioco mosso da mani inesperte. Mosso da istinti primari impossibili da reprimere, Bronson decide di sfruttarli per diventare famoso. Il risultato è un capolavoro di ironia e violenza non-sense, siparietti da sit com e astrazioni teatrali durante i quali il protagonista si racconta, dal palco della propria leggiadra follia parla al pubblico che lo applaude e lo guarda con ammirazione. E’ una biografia, Bronson, ma rifugge tutte le trappole e le banalizzazioni dei biopic della mimesi antropomorfica. Essendo la biografia sempre e comunque un punto di vista dell’autore, dando per scontato che comprimere un’intera vita nella durata di un film è operazione quantomeno parziale, la scelta di Refn è quella di abbandonare la strada dell’oggettività per una rappresentazione astratta e quindi più aderente alla natura fallace del racconto biografico. Bronson è un attore, un guitto violento che ambisce al proprio posto nell’immaginario collettivo, il mondo il teatro, lui la maschera che conduce le danze. Sono gli anni ‘70 dallo stile spericolatamente psichedelico il teatro della vicenda. Quasi da far sembrare Bronson un’allucinazione di un subconscio sociale gonfio di LSD.
La regia di Refn è sontuosa, la storia non è mai sacrificata sull’altare dello stile, stile che si arricchisce di momenti surreali, cifra stilistica del regista, intensificazioni di una messa in scena densa di senso filmico, sempre in bilico tra artificio e realtà. I rimandi a Kubrick sono palesi ma in Refn qualcosa di nuovo e personale viene sprigionato dalla pellicola: l’energia stordente che traspira da ogni inquadratura, lo straordinario uso della musica che accompagna e a volte contrasta le azioni sullo schermo, la ricostruzione storica dell’epoca a partire dalla fotografia desaturata. Tra realtà e caricatura si celebra l’astrazione di un’arte esclusiva, quella della violenza. Bronson viene messo al centro dello schermo e non ne uscirà più, imprigionato nella propria creazione, una vita modellata a propria immagine su un delirante e ironico palcoscenico privato.
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