Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
un biopic selvaggio, bello, audace
I wanted always to be famous, e l’egocentrico Michael Peterson, in arte Bronson, sì proprio Charles Bronson, il giustiziere della notte, il suo idolo, ce l’ha fatta.
Dalla cella del carcere in cui sta scontando il trentacinquesimo anno di carcere, di cui trenta in isolamento, il prigioniero più famoso d’Inghilterra dovrà mandare un pensiero grato a Nicolas Winding Refn che l’ha consegnato alla storia del cinema con un biopic selvaggio, bello, audace, che tiene incollato allo schermo anche chi, come me, non predilige questo genere.
C’è una forza magnetica stranamente affascinante nei tagli di scena, nella composizione cromatica dei quadri, nel buio che avvolge il corpo, soprattutto il viso, di quest’uomo folle e razionale insieme, un concentrato di narcisismo e violenza allo stato così puro da diventare un prodotto d’arte, nulla che lo faccia somigliare ad uno psicopatico, nulla che susciti la ripugnanza che simili fenomeni in genere inducono.
Bronson è una scultura vivente, una massa muscolare mossa da una determinazione selvaggia e irridente.
Non uccide, l’unico omicidio è in realtà una sua forma di giustizia privata a spese di un pedofilo, la sua anarchica violenza si alimenta di sè stessa, si idolatra e non conosce la misura che gli uomini vorrebbero imporle.
Refn non sembra proporre scandagli psicologici né variazioni su temi sociali, siamo oltre, di Bronson lo interessa la sua intensa fisicità, ne fa un oggetto d’arte che galleggia tra pittura (il Magritte vivente dell’ultima scena è un vero coup de théatre), musica (da Wagner a Verdi e altro, c’è un tappeto sonoro mirabolante, steso come un drappo ai piedi di Bronson) e teatro espressionista in cui i monologhi di Bronson/Hardy si scatenano in un’enfasi stilistica alla Kokoschka che è un godimento per la vista e per l’udito.
Un’opera ad alto tasso di stilizzazione, enigmatica come sempre l’arte, impreziosita da una recitazione di alto profilo, un Tom Hardy da Oscar.
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