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Bronson

Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

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La recensione su Bronson

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un film surreale e poderoso (grande regia di Refn) questo “Bronson” reso straordinario dalla maiuscola prova di un Tom Hardy da antologia che esibisce una mimica facciale strepitosa e un’esuberanza fisica capace di trasformare la violenza in un eccellente mezzo di “raffinata” espressione dell’arte e della mercificazione della propria carne.

Partiamo col parlare della straordinaria dimensione di Nicolas Winding Refn, anomalo e geniale regista di questa inusuale pellicola volutamente un po’ “surreale” e “artificiosamente” costruita con gli stigmi propri del teatro, ma con un linguaggio assolutamente cinematografico che la rende diversa da ogni altra cosa.

Nato in Danimarca nel 1970, si è poi trasferito in America (a New York) all’età di 6 anni. Tornerà  di  nuovo a Copenaghen all’età di 17 anni, per ripartire nuovamente a brevissima distanza per iscriversi alla American Academy of Dramatic Art, dalla quale però viene prontamente espulso per un atto rabbioso di violenza, ed è così costretto a ripiegare sulla Danish Film School.

Ha 26 anni quando scrive e dirige Pusher, ed è subito un incondizionato successo di critica e di pubblico, un’opera che sembra intrecciare le tematiche dello Scorsese di Mean Street con l’ineluttabilità disperata dell’Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby jr.. E’ sullo sfondo di una Copenaghen un po’ malsana che si muove infatti un analogo universo di prostitute, piccoli criminali, spacciatori,  tutti corrosi dall’impossibilità di sopravvivere alla sconfitta e agli affetti.

L’arte, il sesso e la violenza sono tutti sfoghi emotivi. Il mio timore principale è quello di ripetermi e di venire etichettato: voglio sempre scioccare e spiazzare il pubblico. Sono dichiarazioni programmatiche rilasciate dal regista nel corso di un’intervista, che trovano una totale conferma nel suo percorso artistico. Nelle sue opere infatti è sempre l’autodistruzione l’elemento privilegiato messo in campo ed esplorato con spudorato senso della provocazione, un sentimento disgregante che non è solo dei loser, si badi bene, ma rappresenta una vocazione  e una “condizione” che riguarda tutti noi, nessuno escluso (ed è anche per questo che il suo cinema riesce ad appassionarci così tanto).

Seguono Blender, eil clamoroso insuccesso del lynchano Fear X ,  che col suo totale disastro al botteghino, induce Refn  a ritornare sui suoi passi per cercare di riprendere lentamente quota. Nascono così Pusher II e Pusher III, due spin-off ancora più vibranti, forsennati e cupi dell’originale che, senza rinunciare allo humour un pò dark, elemento portante di ogni sua pellicola, lo riportano meritatamente sulla cresta dell’onda.

E’ così pronto per riprendere il suo autonomo percorso di autore (e anche la sua sfida), ed è proprio a questo punto che prende forma e nasce Bronson  che lo stresso Refn ci tiene a considerare assolutamente indipendente da tutto quello che aveva realizzato prima, una pellicola ugualmente “anomala” rispetto al generale panorama dell’offerta, che in ogni caso eleva all’ennesima  potenza proprio le peculiarità evidenziate dalle sue dichiarazioni programmatiche  (scioccare e spiazzare il pubblico)  che ben si estrinsecano nel risultato complessivo a cui approda l’opera, che è davvero “nuova” e vitale come poche altre.

Questa volta il progetto è incentrato sul detenuto “più cattivo” delle carceri britanniche, tale Michael Peterson, condannato inizialmente  e in età giovanile, a 7 anni per rapina a mano armata, una pena poi lievitata per le sue irrefrenabili intemperanze, fino a raggiungere i 34 anni di detenzione di cui ben 30 passati in isolamento.

Un inasprimento per molti versi assurdo contro il quale circolerà persino  – ma senza alcun positivo esito – una petizione per affrancarlo dalle quattro mura del carcere visto, che non aveva mai  commesso reati quali lo stupro o l’omicidio, e la dura punizione poteva quindi risultare fortemente incongrua e un poco vessatoria, incomprensibile persino, per il rapporto stretto che dovrebbe sempre esserci fra causa e effetto.

Fin qui i fatti reali della storia ovviamente, poiché Refn segue una strada personale e originalissima che non intende proporre alcun scandaglio psicologico o analisi sociologica del problema: il suo cinema è “oltre” e sono soprattutto altri i suoi obiettivi. Realizza infatti tutt’altro che un biopic, visto che niente nel suo film assomiglia davvero a una ricostruzione, reale o romanzata che dir si voglia,  della vita e delle gesta di questo singolare  “eroe” della strada fortemente “puntiglioso”, fanatico e litigioso cultore della boxe. Per accentuarne le distanze, lo rappresenta  per questo col nickname di Bronson (proprio come Charles, appunto, ruvido e monolitico attore che bene lo identifica nel “riferimento”, non tanto come persona, ma per le gesta compiute dalle figure da lui interpretate spesso sullo schermo)  attribuitogli dal suo manager di pugilato (carriera che affronterà davvero, adattandosi - e adeguandosi - all’ambiguo circuito degli incontri e delle scommesse clandestine) .

Nel film non c’è una vera e propria trama, né una narrazione che si possa definire effettivamente tale, ma un  susseguirsi di scene spesso sconvolgenti,  quasi un poderoso e a tratti immaginifico tableau vivant, tutto coniugato alla prima persona singolare indimenticabile e “seduttivo”, che pone sempre al centro il personaggio  reso straordinario dall’esorbitante prova di  un Tom Hardy da antologia, forgiato e modificato anche nel corpo (con un aumento esponenziale della sua muscolatura  necessaria a definirlo anche “carnalmente”), un Hardy  stratosferico che  esibisce  una  mimica  facciale strepitosa e un’esuberanza fisica  capace di trasformare la violenza in un eccellente mezzo di “raffinata” espressione dell’arte e della mercificazione della propria carne.

Al di là della prova superlativa dell’attore, è pienamente rispettata anche  la particolare cifra stilistica di Refn, testardamente  impegnato a perseguire una sua inusuale strada per offrici opere stimolanti, tutt’altro che pastorizzate, non un mero e sterile esercizio di stile però o l’esibizione esasperata di un talento fatta semplicemente per sbalordire, ma qualcosa di più estremo e articolato che riguarda da vicino la “creazione artistica” tout court.

Splendida anche l’inventiva fotografia  di Larry Smith, indispensabile elemento di collegamento mediato fra il personaggio e il pubblico (anche per i riferimenti “pittorici” che coinvolgono il nostro eroe e la sua storia).

La cinepresa è impegnata spesso a “girare” a distanza davvero ravvicinata, per mostrarci con implacabile precisione ed esattezza, le intemperanze di una debordante personalità incontenibile e irrefrenabile, ma sempre lavorando “sopra le righe” anche nella rappresentazione pratica delle cose con un “iperrealismo” impressionate, necessario per raggiungere lo “straniamento” ricercato dal regista:  il pubblico deve essere critico, non può abbandonarsi al coinvolgimento “sentimentale”. Segue così il personaggio - Bronson (e con lui l’attore) - in tutte le sue evoluzioni, un tu-per-tu costante che assomiglia a sua volta molto da vicino a un match pugilistico sul ring. Ecco allora che Refn e la camera mobile che trasla in immagini le invenzioni  figurativamente straordinarie di Smith e del regista, immortala Bronson persino sul palco di un music-hall inglese mentre si esibisce travestito da clown, con quel suo strafottente apostrofare  il pubblico che stordisce con “azzardate” performances oratorie, quasi “prostituendo” (mercificando) volutamente la sua immagine per trarre il beneficio estremo della convenienza da quel suo ostentato e un po’ cinico “mettersi in mostra”; lo tampina anche in una breve parentesi fuori dalle quattro mura del carcere (giusto il tempo per consumare una breve e sfortunata storia d’amore con una donna glaciale e un po’ “spregiudicata”), una dimensione nella quale ormai si trova inadeguato e non più a suo agio per la lunga detenzione. E’ soprattutto capace, quella macchina da presa, di creare  una profonda empatia visiva dentro una personalissima architettura drammaturgica che fa di botte e sangue  lirismo e poesia, aiutata in questo da un commento musicale a sua volta classicheggiante ed opulento – tutto in controtendenza - cha attinge a piene mani da Wagner e da Verdi.

Un grande film da vedere assolutamente,  una rivelazione che ci ha “folgorato” (come al solito con qualche anno di ritardo perché la distribuzione in sala è stata tutt’altro che tempestiva). Ma  soprattutto  è da tenere a “distanza ravvicinata” il suo regista, che è andato ancora oltre con il capolavoro Valhalla rising passato anche da Venezia, un altro strepitoso risultato difforme e provocatorio (vedere per credere: mi darete pienamente ragione), proprio come anche  il successivo Drive promette di essere, meritato premio alla regia all’ultimo festival di Cannes.

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