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Il rifugio

Regia di François Ozon vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il rifugio

di (spopola) 1726792
6 stelle

Con un’economia espressiva all’insegna della sottrazione che ha solo qualche piccolo cedimento, Ozon mette in scena una storia dolorosa che è anche una lucida analisi sulla evidente (e terribile) difficoltà di sopravvivere a una perdita e sulle differenti modalità che ognuno di noi ha e mette in atto per fronteggiare un siffatto, devastante evento

Con Il rifugio prosegue il personale, eclettico e spesso “spiazzante” viaggio dentro al cinema  del prolifico regista e sceneggiatore francese François Ozon qui (se non erro) alla sua undicesima tappa di un percorso d’autore di tutto rispetto soprattutto per la qualità complessiva dell’inusuale registro espressivo utilizzato, l’anticonformismo che lo pone sempre e comunque al di fuori di ogni convenzione consolidata, la sensibilità un po’ corrosiva e la duttile versatilità delle forme che contraddistinguono tutte le sue opere.

Questa volta e inaspettatamente, il nostro singolarissimo “creatore di immagini e di emozioni” sembra però voler recuperare un tono più intimista, sofferto e pacato che lo porta di nuovo a percorre una strada molto diversa rispetto al quasi contemporaneo Ricky che immediatamente lo precede (uno spaccato sociale di straordinario impatto, fantasticamente grottesco e quasi surreale) e allo scanzonato Potiche – la bella statuina che è venuto subito dopo, ma anche alla “romanzata ricognizione  cinefila” di un film quasi fuori dal tempo e dalle mode come Angel.

Vero e proprio enfant terrible del cinema francese, Ozon lascia infatti per una volta un po’ in disparte la seduzione che l’eros ha spesso esercitato su di lui, qui ridotta a labili ed episodiche tracce comunque molto significative e importanti, ed evita soprattutto di ricorrere a sterili virtuosismi autoreferenziali che hanno caratterizzato non sempre in positivo alcune delle sue precedenti fatiche, per tornare a indagare i fantasmi oscuri di Thanatos che rappresentano un’altra delle ricorrenti ossessioni che attraversano la sua variegata filmografia.

Con un’economia espressiva all’insegna della sottrazione che ha solo qualche piccolo cedimento e un insolito stile lineare molto controllato e privo di orpelli che si dimostra  particolarmente efficace ed avvolgente soprattutto nella prima parte, il regista condensa così la storia di Mousse, di Louis e di Paul e la racchiude dentro un anomalo melodramma asciugato e rarefatto che si colloca proprio nelle vicinanze (anche come tematica esistenziale) di alcune delle sue opere più sentite e partecipate come Sotto la sabbia (sofferta cronaca di una scomparsa, a mio avviso il suo risultato più denso e misurato), e soprattutto Il tempo che resta, tanto per intenderci, con le quali - formando quasi una specie di ideale trilogia - condivide analoghe tensioni (ma senza raggiungere un climax  emotivo altrettanto coinvolgente).

Anche questa è infatti una storia dolorosa e profonda che, partendo da una questione molto sentita dal regista (quella dell’elaborazione di un lutto), finisce per svilupparsi ed intrecciarci intorno a mancanze, bisogni e sentimenti molto differenziati che uniscono e contrappongono i personaggi principali del racconto, per arrivare così ad offrire allo spettatore una ulteriore, approfondita e lucida analisi sulla evidente (ed anche terribile) difficoltà di sopravvivere a una perdita e sulle differenti modalità che ognuno di noi ha e mette in atto per fronteggiare un siffatto, devastante evento. Il tutto però risulta alla fine un po’ appesantito da una serie di riflessioni tutt’altro che marginali, che spostano troppo il discorso in altri territori, come quello della maternità, e più in generale della “genitorialità” (o meglio ancora delle responsabilità che comporta proprio l’essere “genitori”) declinato in forme modernamente spregiudicate e niente affatto banali, ma sempre un po’ paradossali, veri e propri “marchi di fabbrica” che il  suo cinema dichiaratamente  provocatorio sembra voler “imporre” anche in questo caso quali principi fondamentali e irrinunciabili, che qui si esplicitano soprattutto in un finale (sul quale ci sarebbe davvero molto da discutere) nel quale il regista (lo scrive Renata De Giorgio in un interessante saggio sull’opera) volutamente – ma a mio avviso con qualche forzatura - approda questa volta ad identità maschili e femminili meno unilaterali, stereotipate e rassicuranti del solito, più disposte al dialogo e all’esplorazione di nuove modalità di relazione con il grande mistero della vita, dove è proprio l’amore per sua essenza polivalente, simbolico, trascendente ad essere non riconducibile - e soprattutto  “non riducibile” alla sola eterosessualità. (…) Paul può così  lasciare Mousse per ritrovarla però proprio nel breve epilogo, in una clinica a Parigi dove la donna ha nel frattempo serenamente partorito una bambina (…). L’incontro fatto di poche parole e pochi gesti sufficienti comunque  a ritrovarsi, condurrà la ragazza ad allontanarsi di nuovo da sola, lasciando la piccola alle cure amorevoli di Paul e al suo sguardo incantato: non una fuga, ma un passaggio (forse momentaneo) di consegna, “alla persona migliore per occuparsi di lei e amarla come merita” per continuare un cammino tutt’altro che concluso, da completare in solitaria, per imparare finalmente a vivere ed amare, e magari per ritrovare un desiderio di maternità più genuino e autentico che non sia semplicemente una scappatoia per alleviare il dolore o per risolvere certe criticità dell’esistenza. (…) Ozon tratteggia così un profilo che risulta fin troppo condizionato dal bisogno di cogliere proprio gli aspetti più “animici” della sessualità e dei “generi”, per inserirci dentro modalità espressive indubbiamente poetiche, che hanno però principalmente l’obiettivo politico di fare della genitorialità una funzione svincolata dalle determinanti biologiche e legata invece alle capacità identificatorie, riparative e simboliche della psiche. (…) Un nobilissimo intento nel perseguire il quale Ozon, pur procedendo con grande sensibilità fatta di accenti pacati e di sfumature proprio per sfatare senza troppo turbare le coscienze i non pochi tabù sull’istinto materno, non riesce però ad evitare del tutto stereotipie, incoerenze e semplificazioni idealizzanti nella trama e nei personaggi, come la forte ambivalenza verso il materno espressa sempre in primo piano e le problematiche edipiche che vengono proiettate all’esterno, incarnate da figure secondarie che irrompono nel racconto e subito si dileguano (come la ricercata elusione delle valenze narcisistiche meno integrate della scelta omoerotica che rende critico - e non del tutto chiarito - proprio il problema delle diversità e cortocircuita di conseguenza il passaggio dal corpo sognato dal desiderio, alla realtà).

 

Approcciandosi  a quest’opera così corposamente densa di interrogativi e di “sospensioni”,  si rimane comunque soprattutto sorpresi di come il regista sia riuscito con una invidiabile proprietà di linguaggio (che ha solo ogni tanto qualche piccola crepa, come si è già detto) a cambiare “tono e prospettiva” rispetto ai suoi abitudinari cliché, con una messa in scena che rimane comunque perfettamente riconoscibile proprio nella matrice unificante della solida mano che ne gestisce gli esiti, che è poi la  straordinaria capacità che ha Ozon di “costruire” opere ad hoc che nascono probabilmente da un’ideuzza (la voglia di “fotografare”una gravidanza incipiente colta nella sua reale ed opulenta consistenza visiva) che solo le speciali “condizioni” di un momento propizio e irripetibile rendono possibile come realizzazione pratica, ma che traggono linfa vitale da una suggestione che probabilmente da tempo gli balzellava per la testa, e sulla quale è stato poi capace di imbastirci sopra una storia complessa e problematica, utilizzando i riferimenti culturali e stilistici connessi con il suo innato mestiere che deriva da una conoscenza profonda del cinema e dei suoi meccanismi affabulatori, e che in questo caso, trae sicuramente origine dalla disponibilità di Isabel Carré a farsi filmare durante la sua effettiva “gestazione”, condizione che il regista “documenterà” poi con meticolosa precisione a partire dal sesto mese di gravidanza ponendo spesso in primo piano un pancione prorompente e molto esibito. E qui la Carré è indubbiamente particolarmente bella e spontanea, quasi “carnale”, con la pelle bianca, liscia e tesa della sua pancia che diventa davvero da subito “il centro del mondo”, della scena e della storia, tanto che questa irruzione tutt’altro che voyeristica dentro la natura fatta con la cinepresa, si conferma alla fine proprio come la principale ricchezza (e risorsa) di un film che gioca le sue carte migliori su uno stile improntato a un delicato realismo (si potrebbe dire girato quasi “in alta definizione”), dove è soprattutto il corpo dell’attrice a fare il personaggio, un  personaggio che si offre allo sguardo nella sua complessità un po’ impudica di donna molto fragile, ma al tempo stesso capace di resistere “nonostante tutto”, agli urti, alle offese e alle ferite.

Il racconto, tripartito in un prologo cupo e delicato a un tempo (la parte migliore dell’intera opera), uno sviluppo centrale un tantino “tirato per i capelli” e un epilogo a sorpresa, è inizialmente quello  di Mousse e di Louis, una coppia di giovani tossicodipendenti (lui proveniente dal dorato mondo dell’alta borghesia) che vivono chiusi in un grande, vuoto e impersonale appartamento parigino separato dal mondo e dalla  vita (il primo “rifugio” dei tanti della storia) in perenne attesa del rito quotidiano dello spararsi in vena l’eroina che promette loro un ulteriore e più profondo riparo fusionale fuori dalla realtà, allettante e mortifero al tempo stesso. Soccorsi in overdose e portati prontamente in ospedale, la donna verrà a sapere, contestualmente alla notizia della morte del compagno, che è  rimasta incinta di lui. Malgrado le pressioni ad abortire che le arrivano soprattutto dall’aristocratica, formale e un po’ insensibile madre di Louis, la ragazza decide inopinatamente di tenere il bambino, e si rifugia per la gestazione, in una casa vicina al mare, dono di un attempato ex amante che le ha fatto un pò da padre. L’improvviso arrivo di Paul, fratellastro di Louis (adottato a suo tempo in assoluta segretezza dopo che la giovanissima madre lo aveva abbandonato in una chiesa) arriverà però quasi come un fulmine a ciel sereno ad interrompere la solitudine programmatica della donna. Il giovane è dichiaratamente omosessuale, una creatura gentile attenta e sensibile, di delicate e affascinanti fattezze (e ci scapperà di conseguenza anche una scopata, come è spesso di prammatica in queste situazioni, per lo meno al cinema, nonostante sia sentimentalmente e felicemente legato a Serge, un ragazzo della zona appena conosciuto, il che rende ancora più improbabile questo “cedimento” preannunciato da  molti segnali che lo fanno diventare persino prevedibile).

Mousse inizialmente diffidente e fredda, si lascerà così a poco a poco avvicinare e coinvolgere proprio da Paul, che in un certo qual modo la “rifornirà” delle necessarie cure parentali, fornendole tenerezza, solidarietà, e soprattutto una ritrovata curiosità per i rapporti umani ed affettivi da valorizzare ed accettare nella complessa molteplicità delle loro manifestazioni.

Il rifugio, dopo il tragico e folgorante incipit dell’avvio (due corpi semiagonizzanti in un appartamento ormai devastato dall’incuria e dalla vita), acquista dunque nella parte centrale la dimensione apparentemente vuota, ma al contrario infinitamente “piena”, della gestazione e dell’attesa: non ancora del tutto libera dalla sua dipendenza dall’eroina, Mouse sta in qualche modo fuggendo da quel lutto drammatico animata da una ritrovata, straordinaria ed istintuale vitalità che la porta ad esplorare il nuovo territorio in cui si è trapiantata, fare incontri ed esperienze, andare a ballare in discoteca fino a stordirsi, muoversi per il mondo come solo una donna attraente e disinibita  può provare a fare(tentativi concreti insomma per imparare a tornare a sorridere alla vita che la porteranno ad avere persino una fugace relazione con un uomo sposato attratto dal feticcio della pancia, semprechè ovviamente non sia quella della propria moglie però!, paradossale e sarcastica osservazione “a latere” del regista).

In tanto tourbillon di sensazioni, finirà persino a letto col giovane  e attraentissimo cognato gay  (fatto a cui ho accennato sopra, ed anche la parte più criticabile messa appositamente in piedi immagino per costruirci sopra quel finale che ha indubitabilmente un senso, ma che io trovo fastidiosamente  “appiccicaticcio”), perché davvero quasi solo al cinema i gay consapevoli come Paul sono così disponibili ad esplorare prontamente e con assoluta naturalezza, il sesso anche contro la propria natura, e a farlo diventare qualcosa di più di un semplicemente e casuale “affare di letto”,  un fatto assolutamente scontato e pacifico, a cui poter poi attribuire il valore simbolico di diventare l’elemento catalizzante capace di trasmettere (o meglio “trainare”) qualcosa che riguarda quel desiderio di  una “genitorialità” in teoria negata ad entrambi per differenti, ma palesi ragioni indotte dalle regole ottuse della società.

E non è un caso allora che per interpretare Paul, destinato a scoprire accanto a Mousse il suo istinto paterno fuori da ogni idea consolidata di nucleo familiare e di paternità biologica, si sia scelto l’affascinante Louis-Roman Choisy, un cantautore piuttosto famoso in Francia, che fra l’altro ha composto la ninnananna che fa da leit-motiv al film, uno stereotipo abbastanza usurato che rende il tutto molto più convenzionale del necessario.

 

La storia è dunque quella di un “rifugio” anche per l’anima, uno spazio privilegiato e protetto dove il dolore può trovare il modo per stemperarsi lentamente nella necessità di ritornare piano piano a vivere nel mondo col mare che urla minacce di passione a debita distanza e le note dolenti (di un pianoforte) a segnare la musica del ricordo, dove l’insensatezza del destino (“perché lui è morto e io no?”), domanda certamente retorica, ma che è impossibile non farsi di fronte a un lutto straziante come questo, acquisisce gradualmente, se non un senso, per lo meno la grazia tardiva della consapevolezza (dal “buio” iniziale che avvolge Parigi al finale all’aperto e in piena luce). Dalla tana però bisogna pur essere stanati (Matteo Columbo) da qualcosa  o da qualcuno, ed ecco allora che l’improbabile Paul arriva al momento giusto proprio al fine di assolvere alla funzione di aprire nuovi varchi alla possibilità che la vita torni nuovamente a fluire… perchè il rifugio può essere persino quella “realistica” pancia mostrataci da Ozon a volte quasi come un’isola di speranza (la scena nella vasca da bagno), altre invece carica di una valenza fortemente eroticizzata (la scena della discoteca e del rapporto con l’uomo sposato) ma sempre calda ed accogliente (e soprattutto “rassicurante”).
***1/2

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