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La menace

Regia di Alain Corneau vedi scheda film

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La recensione su La menace

di joseba
10 stelle

Polar semplicemente portentoso, La Menace è il terzo lungometraggio di Alain Corneau e la sua seconda collaborazione con Yves Montand dopo il pregevole Police Python 357 dell'anno prima (i due si riuniranno per la terza ed ultima volta nel 1981, sul set di Codice d'onore). Girato in formato 1: 1.85 e splendidamente illuminato da Pierre-William Glenn, uno dei direttori della fotografia più talentuosi e spregiudicati del cinema francese, il film si articola in tre atti e si snoda su altrettante direttrici cinematografiche.
Primo atto: i disperati tentativi compiuti da Dominique Montlaur (Marie Dubois) per evitare che Henri Savin (Yves Montand) la lasci definitivamente e per ostacolare il suo rapporto con la più giovane e bella Julie Monet (Carol Laure), tentativi che vanno dal ricatto affettivo (una simulazione di suicidio) al riscatto economico (l'acquisto di tre camion per Henri e l'offerta di 10 milioni di franchi a Julie per farsi da parte), culminando infine nel suicidio vero e proprio.
Secondo atto: la complessa strategia elaborata da Henri per dirottare progressivamente su di sé le indagini del commissario Waldeck (Jean-François Balmer), strategia che scarta a priori la verità dei fatti (troppo inverosimile e improbabile da sostenere) per accumulare una serie di indizi e prove che scagionino Julie e inducano il commissario ad accusare Savin (che nel frattempo è volato in Canada)
Terzo atto: l'ultima mossa del piano di Henri che, approfittando del sanguinoso racket subito dai camionisti canadesi, inscena spettacolarmente la propria morte con tanto di testimoni (la sua autocisterna piena di liquido infiammabile precipita da un dirupo dopo essere stata crivellata di colpi esplosi da un killer su una macchina blu).

Incredibilmente contorto e artificioso, l'intrigo è padroneggiato magistralmente da Corneau (anche cosceneggiatore insieme a Daniel Boulanger), che dispensa dettagli rivelatori e informazioni narrative con la stessa abilità del protagonista. E se è vero che lo spettatore, diversamente dal commissario, è messo a conoscenza della verità degli eventi, è altrettanto vero che il piano ideato da Henri gli si chiarisce solo strada facendo, con tutti i dubbi e le supposizioni del caso. Questa la prima direttrice cinematografica su cui si snoda La Menace: un'incalzante speculazione sul potere persuasivo della finzione programmaticamente svincolata dal reale (il categorico rifiuto di Henri di riferire come sono andate effettivamente le cose). Il finale, con la schiacciante rivincita della realtà sulla manipolazione, suona come una tragica vendetta e come un ammonimento a non spingere troppo sul pedale della mistificazione, soprattutto se praticata senza scrupoli morali (Henri sfrutta le estorsioni a cui sono soggetti i camionisti canadesi per far credere che la propria morte sia l'ennesima esecuzione del racket). La Menace non è solo il rischio di essere incriminati per un delitto non commesso, ma anche il pericolo opposto, ovvero quello di truccare così spudoratamente la realtà da esserne puniti.

Eppure, e questa è la seconda direttrice, la riflessione teorica non va affatto a scapito della carica emotiva: Corneau dipinge sia il disfarsi della relazione tra Henri e Dominique (a cui Marie Dubois conferisce luminosa disperazione) sia il farsi di quella tra Henri e Julie (una trattenuta Carole Laure) con sicurezza di tratto e incisività psicologica, facendo dell'una il contraltare dell'altra (all’inconsolabile aggressività di Dominique risponde il dolente contegno di Julie). Anche la tensione drammatica non è sacrificata sull'altare della costruzione astratta: il raggiro orchestrato da Henri ai danni dell'ostinato commissario Waldeck (un Jean-François Balmer cocciutamente in parte) si dipana a maglie sempre più strette, in un astuto rovesciamento del cliché del poliziotto che gioca col criminale. Qui il topo è il commissario, il gatto il sospettato.

Terza ed ultima linea guida: la variabilità della messa in scena. In un'intervista contenuta negli extra del dvd di Codice d'onore recentemente edito da Rarovideo (http://www.spietati.it/archivio/recensioni/dvd/2009/codice_d_onore.htm), il direttore della fotografia Pierre-William Glenn definisce Corneau un "cineasta di montaggio", vale a dire un regista che, contrariamente a molti altri colleghi provenienti dal teatro, non si confronta col set come unità spaziale nella quale recitano gli attori e dalla quale cogliere suggestioni immediate, ma che concepisce la scena come materia prima da scomporre a partire da un disegno rigorosamente prestabilito. Secondo Glenn questa prassi, accantonata da Corneau nel solo Il fascino del delitto (1979), è eccessivamente discontinua e inibisce gli interpreti, impedendo loro di calarsi nella parte e far succedere davvero qualcosa durante le riprese. A prescindere dall'opinabilità del giudizio di Glenn (personalmente lo ritengo troppo performativo), La Menace esemplifica perfettamente quanto affermato dal direttore della fotografia: Corneau frammenta l'azione con un fraseggio visivo secco e meccanico (eccezion fatta per l'incipit, girato con inquadrature lunghe e fluidi movimenti di macchina), creando così un ingranaggio di ferrea inesorabilità. Cionondimeno questa segmentazione, pur rispettata lungo l'intero film, non determina una messa in scena tutta d'un pezzo: Corneau cesella lo stile a seconda delle situazioni rappresentate e della temperatura emotiva raggiunta. Se nella prima parte, di marcata impronta mélo, abbraccia i personaggi con inquadrature larghe e ariose (dando spazio anche alla città di Bordeaux), nella seconda, in cui è il noir a imporsi, stringe la misura dei piani, incapsulando i personaggi nei loro microcosmi (la casa e l'ufficio dove Henri pianifica la strategia accusatoria, il carcere dove è segregata Julie, l'automobile con la quale il commissario conduce le indagini). Nella terza sezione, infine, la cesura è ancora più netta e vistosa: a cambiare non è soltanto il genere di riferimento (l'action), ma anche il teatro dell'azione (il Canada). Con uno stile laconico e nervoso tra il Siegel di Chi ucciderà Charley Varrick? (1973) e il Peckinpah di Getaway! (1972), Corneau si lancia in una gloriosa riscrittura del cinema americano, infondendovi dosi massicce di romanticismo nichilista e avvolgendola struggentemente con le note baritonali del sax di Gerry Mulligan. Un film immenso.

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