Regia di Jason Reitman vedi scheda film
“Senza peso” è l'aggettivo più appropriato per definire l’ultima fatica di Jason Reitman: l’accostamento, lungi dall’essere una simpatica sciarada da accostare ad un titolo che molto deve all’assenza di massa corporea, è invece il risultato opinabile di una serie di fattori che ne caratterizzano la sua consistenza. Costruito sulla notorietà del suo attore principale, ancora una volta alle prese con un personaggio la cui empatia (per mestiere licenzia le persone) poco si addice al target hollywoodiano, e forte di un impianto drammaturgico imperniato sulla nuova pandemia rappresentata dalla precarietà lavorativa, “Up in the air” si muove all’interno di due tendenze opposte e per questo uguali: da una parte vi è il movimento continuo e la mancanza di legami affettivi di Ryan Bingham (il suo motto è “Moving is living”), un tipo abituato a scivolare tra le pieghe della vita grazie ad una filosofia affinata nel corso degli anni con una applicazione maniacale, e persino teorizzata nelle conferenze itineranti che lo stesso si ritaglia nel corso dei suoi viaggi di lavoro, dall’altra la voglia di stabilità ed i valori famigliari delle sue “vittime”, quegli impiegati che egli stesso dovrà mandare a casa; avversari uniti dal tentativo di ricondurre la realtà all’interno di una dimensione privata e personale ed egualmente perdenti di fronte agli scarti della vita. Tematiche con un peso specifico non indifferente soprattutto se le si vuole convogliare all’interno di un film che si mantiene in equilibrio tra il realismo dell’assunto (nella parte degli impiegati licenziati Reitman fa recitare non attori a cui il destino ha riservato lo stesso destino) e la costruzione di un personaggio che non riesce mai a far dimenticare il fascino del suo interprete . E così, inconsapevolemente stregato dal magnetismo della star, o più probabilmente perché i cromosomi del suo cinema appartengono al cinema più leggero, Reitman sposta progressivamente la vicenda sul fronte privato, preferendo soffermarsi sui dolori borghesi dell’azzimato Werther piuttosto che sulle problematiche sociali della moltitudine silenziosa: tra sguardi malandrini e camicie inamidate, serate al chiaro di luna e notti galeotte “Up in the air” si scioglie come neve al sole, concedendo molto al pubblico femminile sia in termini di divismo (Clooney sembra quello della pubblicità del caffè) che di emotività. Il richiamo al cinema degli anni 70, vagheggiato nella centralità di un indagine psicologica che non perde mai di vista i tempi dello spettacolo, così come nella scelta di brani proveniente da quel periodo (Crosby, Still e Nash) non diventa mai sostanza ma semplice rimpianto di un epoca che non esiste più. E come spesso accade al cinema di Jason Reitman, la voglia di piacere a tutti i costi (ci riuscì persino con lo sgradevole protagonista di Thank you for Smoking) sommata alle necessità di un genere a cui il pubblico delega la funzione di sublimare la realtà, diventano l’antidoto contro qualsiasi tentativo di andare oltre il semplice intrattenimento. Vittorie e sconfitte si equivalgono in un qualunquismo generale che nulla toglie alla riuscita del prodotto (il pubblico ripaga questa politica decretando il successo del regista) ma lascia l’amaro in bocca per le promesse non mantenute.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta