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Tra le nuvole

Regia di Jason Reitman vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Tra le nuvole

di Marcello del Campo
4 stelle

Una commedia che certamente sarà piaciuta ai palati buoni ma deludente per chi dal cinema non si aspetta “l’impegno” ad ogni costo, ma un minimo di adesione, poiché il tema di Up in the Air è caldo on the air.
Jason Reitman, è una promessa gonfiata dalla critica più benigna che si aspetta da Hollywood ciò che da quella parte non potrà mai arrivare.
La storia del manager addetto ai tagli del personale (basterebbe una sola inquadratura di Risorse umane di Cantet per bollare il film come un mea culpa politically correct) non convince, perché, nonostante il regista si sforzi di assumere il punto di vista dei licenziati, mostrandoci in sequenze sempre uguali una serie di ritratti non memorabili di gente cui viene comunicato il licenziamento, la parte più cospicua del film è dedicata alla vita ‘travagliata’ dell’esperto in psicologia aziendal-motivazionale (un George Clooney che cerca di somigliare più di quanto non somigli già all’inarrivabile Cary Grant).
Ray Bingham, questo il nome del ‘terminator’ compie egregiamente il suo lavoro viaggiando in aereo 250 giorni l’anno per diversi anni tanto che, come dice lui stesso, sarebbe potuto andare sulla luna, anche, se a ben vedere, Ray è come se vivesse sulla luna. Di ciò che accade sulla terra gli importa poco, il suo compito consiste nel prospettare ai licenziati un futuro meraviglioso, ma nel fondo del suo ego stralunato lui è cosciente che nel futuro ci sono il limbo e la disperazione.
Restano sullo sfondo le vite rovinate dei licenziati, in primo piano ci sono le elucubrazioni dei potenti (“LUNGA VITA AL POTERE”, recita un cartello nell’azienda in crisi, pronta ad assumere personale esperto in ‘risorse umane’ che abbia meno cuore dell’esperto ‘tagliatore di teste’). 
Non convincono certi bruschi passaggi dalla commedia brillante in agrodolce alla vita solitaria, incasinata dei più abbienti. Su chi sta meglio l’occhio di Reitman posa il suo sguardo, ora ammiccante, più spesso consolatorio.
Tolto l’ingombro (faccio per dire) dalla sceneggiatura di indagare le cause dell’impoverimento della middle class americana, il film appare quello che realmente è: come se la passa un manager che ha fatto del celibato la sua religione? Quale la ricaduta di una vita dissipata, tra appuntamenti erotici in hotel a cinque stelle e belle donne?
Ecco, il film, infine, potrebbe intitolarsi “La solitudine del manager” e, forse con un pizzico di malignità, potremmo pensare all’ennesima reincarnazione di un Don Giovanni punito.
Un finale amaro quanto la constatazione ugualmente amara che dal pulpito della new generation di cineasti a stelle e strisce il moralismo è duro a morire. Ma a nessuno venga in mente di pensare che Up In The Air sia un film ‘socialmente impegnato’ o che Reitman, figlio del ‘leggero’ cineasta dell’ipocondria, rinnovi i fasti di Frank Capra. 
Deprime, infine, l’idea che il suicidio di una donna di colore, che ha perso il posto di lavoro, possa ingenerare una crisi nel cuore di ghiaccio del ‘tagliatore di teste, tale da potere modificarne lo stile di lavoro e di vita: l’uomo è interessato soltanto alla solitudine che lo aspetta al varco, dei licenziati non gliene frega un fico secco.
Come a Jason Reitman, del resto.

Su Jason Reitman

Il tentativo di fondere la commedia brillante e la polemica sociale naufraga. Reitman non è Capra o Preston Sturges. 

Su George Clooney

Routine al minimo sindacale

Su Vera Farmiga

Bella, seducente - ma che c’entra?

Su Anna Kendrick

Insopportabile, insignificante

Su Jason Bateman

E chi è?

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