Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Un’ex prostituta, decisa a cambiare vita, prende con sé il figlio che ha fatto crescere in paese e si trasferisce in un quartiere alla periferia di Roma: il suo obiettivo è costruirsi una rispettabilità piccolo borghese usando qualunque mezzo (non escluso il ricatto, con cui fa ottenere al figlio un posto di cameriere). Tuttavia le cose vanno storte: il pappone, che si era sposato, si rifà vivo e la costringe a tornare sulla strada; il figlio inizia a frequentare cattive compagnie, sia maschili sia femminili, rimane coinvolto in una rapina e muore in prigione. Quelli che vengono considerati i punti di forza di questo film sono proprio gli elementi che, secondo me, abbassano il voto. Pasolini è un regista che stupra i suoi personaggi, li schiaccia sotto il peso delle impalcature ideologiche e così facendo crede di rispettarli ed elevarli. L’immagine oleografica del proletariato che emerge dalle sue prime opere è di una falsità ripugnante: nessun povero diavolo disteso su un letto di contenzione si mette in posa come il Cristo morto di Mantegna per fare un favore a chi lo sta inquadrando; un’immagine del genere serve solo a gratificare il pubblico intellettuale a cui Pasolini si rivolge. C’è però una fondamentale differenza rispetto ad Accattone: lì il protagonista era un carnefice, qui una vittima; e allora si solidarizza spontaneamente con lei, oggetto delle violenze di tutti (regista compreso). La Magnani fornisce una delle sue prove più mature, ma il divario con gli altri interpreti è imbarazzante: ogni volta che non è presente sulla scena, il livello cala drasticamente.
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