Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Dramma bucolico tra l'allegorico e il mistico che vede il ritorno della collaborazione tra il regista Winding Refn e il feticcio Mads Mikkelsen. Quest'ultimo è il valoroso e misterioso One eye, personaggio leggendario attorno a cui ruota tutta la vicenda. Da segnalare fotografia e location, oltre alla solita violenza ostentata che accompagna da sempre l'autore danese.
Ai tempi delle crociate, un valoroso guerriero senza nome né voce sfugge ai suoi aguzzini e si imbarca insieme ad un gruppo di cristiani diretti in Terra Santa.
Lande spettrali e brughiera minacciosa. Il danese Nicholas Winding Refn abbandona le ambientazioni metropolitane per dedicarsi ad un film che viaggia sul confine tra misticismo e allegoria. La location spoglia non fa che concentrare le attenzioni sulle azioni, in particolare dell’uomo solitario senza voce e senza paura che domina la scena. “One eye” lo chiama il suo giovane accompagnatore, per via di quell’occhio sinistro sigillato chissà per quale recondito retaggio. Lui è Mads Mikkelsen, che torna ad essere protagonista di un film di Winding Refn dopo gli straordinari esordi di “Pusher” e del suo sequel.
One eye è un personaggio ibrido. Un Antonius Block che anziché giocare a scacchi con la morte la domina. Forse è lui stesso l’angelo sterminatore. O forse è Dio, imbattibile e giusto, con quell’occhio solo che a questo punto non è un caso. Come quando incontra degli epigoni di Aguirre che sembrano usciti dall’omonimo film di Herzog, e fa giustizia. Quella dettata dall’alto. Più religioso dei cattolici attorno a lui, dispensa giustizia quando il nichilismo e l’ambizione terrena finiscono per impadronirsi dei suoi compagni di ventura. Nella Terra Promessa che non si rivela tale, i crociati avanzeranno riformulando gli obiettivi. E One eye trasformerà quella distesa lacustre in quella vicine ad “Apocalypse now”.
Con ritmi tarriani e frequenze di dialogo da film asiatico d’essai, Refn affascina con monocromatismi capaci di rendere ancora più irreali le ambientazioni opprimenti, in cui echeggiano suoni distorti, e l’avanzamento imperterrito tra follia ed illuminazione viene scandito da ritmi sordi, in attesa della prossima visione ad occhi aperti (che il regista danese decide di rappresentare con differenze cromatiche che ricordano un fumetto di Frank Miller).
Tutto procede per ralenti e silenzi, senza rinunciare al tipico topos della violenza, che esplode improvvisa in stile gore (con squartamenti e sventramenti mostrati senza timore).
Carmine Cicinelli
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