Regia di Shirin Neshat vedi scheda film
La regista tenta di parlare del presente esplorando il passato (qui prendendo spunto da un racconto di Shahrnush Parsipur. Nel passare dalla parola scritta al linguaggio delle immagini però si perde gran parte del di “realismo magico” del romanzo e il film risulta un po’ schematico nell’alternanza delle quattro storie che si intersecano fra loro.
Che dire? Nel vederlo questo Donne senza uomini, premiato per la regia all’ultima Mostra del cinema di Venezia, nel tentare di assimilarlo, di farlo in qualche modo mio, ho provato sensazioni paragonabili a quelle che mi hanno colto durante la proiezione de Il canto di Paloma, un disagio “percettivo” di analoga portata che mi ha causato più irritazione che partecipazione attiva, nonostante la “tragicità” dell’assunto.
Entrambi virati al femminile, non solo come elemento centrale delle storie, ma anche per la particolarità dello sguardo della realizzazione (nel caso precipuo quello della regista Shirin Neshat - qui alla sua opera prima in ambito cinematografico, ma con un passato importante di fotografa e di videortista “testimoniale” di fama internazionale - coadiuvata per la messa a punto della complessa sceneggiatura, dal contributo “speciale” della scrittura di Shoja Azari, suo abituale collaboratore, nonché compagno di vita), a mio avviso anche questa pellicola soffre, così come era accaduto per l’opera della Llosa, per una sorta di “dislivello” (che definirei di incompatibilità fra stile e contenuto) che finisce per far apparire stridente e disomogeneo il risultato, così tanto da rendere persino più flebile la portata della denuncia di una condizione “oppressiva” che si avverte potente e necessaria, oltre che prioritaria, ma che passa quasi in secondo piano di fronte alla leccata impaginazione delle sequenze, visivamente suggestive, ma talmente stilizzate nell’accademica definizione plastica dei vari elementi, da annacquare la forte valenza drammatica della rappresentazione dei fatti e delle psicologie, oltre che dell’impatto socio-cultural-religioso.
Il lavoro è svolto con indubitabile, nobilissimo intento “accusativo”, che è poi la volontà di stigmatizzare un sistema che continua ancora oggi a “marginalizzare” la donna e suoi sacrosanti diritti emancipativi e di sopravvivenza pratica, facendola così diventare a sua volta il paradigma di una persistente “sopraffazione” più generalizzata e che riguarda in prima istanza la restrizione della libertà messa in atto da ogni dittatura radicata nell’oscurantismo di una concezione quasi medioevale dei rapporti e della vita . Intenti nobilissimi dunque, ma proprio la troppa ricercatezza “abbellente” della costruzione, la carente presenza di una empatia avvolgente che privilegi il cuore più che lo sguardo, un eccesso di “intellettualismo” poetico, rende l’operazione, proprio nell’impatto con il pubblico fruitore, meno incisiva e lacerante di quanto sarebbe stato invece necessario per l’importanza infuocata dei temi trattati.
Forse quelli che a me sembrano essere i limiti più evidenti di questo comunque importante documento su una “limitazione” fortemente emarginante tutt’altro che scongiurata, vanno principalmente ricercati nel passato formativo della Neshat, trovano proprio nel suo formalismo espanso il loro “peccato originale” che non può essere del tutto condonato. Il prodotto è, in ultima analisi, un’elaborata “costruzione” a incastri, particolarmente suggestiva nell’impaginazione, ma comunque troppo legata a un’esperienza prevalentemente “fotografica” dell’immagine, nonostante gli evidenti sforzi per tentare una mediazione alla ricerca di una più smarcata autonomia dovuta al differente “mezzo” – quello cinematografico – questa volta utilizzato. Come già accennato, la composizione delle inquadrature, la cura dei dettagli, le scelte cromatiche delle nuances, sono fascinosamente ammalianti, ma non sufficienti per entusiasmare: rappresentano l’ossatura di una pellicola certamente intensa, ma purtroppo fredda e “inanimata”, quasi che ci trovassimo ad osservare “quadri” in movimento che traslano, “raffigurandole”, situazioni e figure fissate negli accadimenti, ma senza trasmettere però il pathos dell’emozione dell’azione, sempre così importante per una partecipazione attiva che definisca anche una positiva “assimilazione” critica dei contenuti, e il dolore effettivo che “traspare” soltanto e solo a tratti, è più “immaginato” che avvertito veramente.
La regista vive da tempo lontana dalla sua patria (si avverte questa distanza culturale con il territorio) e il film – di produzione tedesca – è stato possibile proprio grazie all’Europa. Come spesso accade in questi casi, tenta di “parlare del presente” esplorando il passato (qui si prende spunto da un romanzo di Shahrnush Parsipur, pubblicato anche in Italia da Tranchinia, che purtroppo non conosco, ma che mi si dice intriso di un avvolgente lirismo, una sorta di “realismo magico”, insomma che il passaggio dalla parola scritta alla modalità del racconto cinematografico, rende più problematicamente complesso, anche a causa di una certa monocorde monotonia del ritmo e di un montaggio un po’ schematico nell’alternanza delle quattro storie che si intersecano fra loro.
Dedicato a più di un secolo di “vittime” e prevaricazioni schiavizzanti (dittatoriali e familiari) è ambientato nel 1953, e guarda agli eventi di quel periodo con l’occhio critico della conoscenza, inquadrando i fatti nel momento cruciale del passaggio da una governabilità solo all’apparenza più occidentalizzata e democratica, all’oltranzismo religioso che prenderà poi “antistoricamente” il sopravvento.
E’ dunque un’altra clamorosa sommossa quella che fa da sfondo, una insurrezione popolare schiacciata dagli interessi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che determineranno – come sempre accade in questi casi – la definitiva resa finale (e il discorso è, come dicevamo, volto al passato, ma attualissimo nei parallelismi con ciò che accade nella contemporaneità). I giorni (e i tempi) sono quelli del rovesciamento del governo di Mossadegh, e della conseguente, successiva, restaurazione del regime dello Scià, nel frattempo autesiliatosi in Italia per mettere preventivamente in salvo la vita e i capitali. Quello che è accaduto dopo e che ancora “persiste”, lo conosciamo tutti.
Le “donne senza uomini” del titolo che rappresentano ceti di differente natura e condizione, si intersecano quasi con una casualità programmatica, si incontrano e “convivono” alla fine anche in simultanea, dentro una residenza di campagna dove una di loro – Fakri (moglie transfuga di un inflessibile ufficiale dell’esercito dal quale ha trovato il coraggio di separarsi) - si è rintanata per cercare inutilmente un po’ di pace e forse una risposta alla propria solitudine. La sua è la storia di una disillusione più “cosciente” ma analogamente devastante (comunque meno tragica delle altre nei risultati) per la scorata devastazione psicologica che taglia le gambe ad ogni illusione e toglie la speranza di una possibile rinascita. Le altre tre (ci sono molte metafore che vanno ben oltre i singoli personaggi,che cercano di immergerci dentro percorsi e realtà di una portata più universalizzabile) sono quelle di Zarun, la dolente, ossuta prostituta abusata e silenziosa (facilmente identificabile il parallelo fra questa figura e l’Iran stesso), e di Faezeh che sogna il matrimonio che non potrà più avere. E’ soprattutto quella di Munis, che anelerebbe a partecipare attivamente alla vita politica insieme agli uomini (ma ci riuscirà soltanto il suo fantasma, dopo che avrà scelto la via “perdente” del suicidio per uscire dalla “reclusione” impostale dal fratello) . Ci vorrebbe forse più “sangue”, allora: la mediazione poetica toglie invece a volte vigore e forza (contribuisce notevolmente ad accentuare il senso del “distacco” che fa restare esterni alla drammaticità degli eventi, anche l’intensa musica di Sakamoto, comunque una intrigante, “riconoscibilissima” colonna sonora in perfetta sintonia con l’impostazione registica).
Assolutamente straordinaria invece, sotto ogni aspetto, se valutata in quanto tale, la fotografia “pittorica” di Martin Guschlacht, tutta giocata sui colori virati verso l’ocra e il seppia, che si riaccende a volte nei toni più vivaci nelle scene floreali del giardino).
Bravissime tutte le interpreti, intense e appassionate.
Ogni cosa a suo posto, insomma (anche se il riconoscimento veneziano risulta un po’ eccessivo, forse dovuto alla particolarità del momento, con l’eco ravvicinata dell’Onda Verde delle manifestazioni a Teheran, o della storia ancora bruciante di Neda e del suo corpo martoriato). Tutto, tranne l’emozione (parlo per me, ovviamente, non pretendo di universalizzare questa posizione) che nonostante i meriti complessivi, non mi consente di valutare in fondo il film con un punteggio che va oltre quello della sufficienza.
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