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Lebanon

Regia di Samuel Maoz vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lebanon

di yume
8 stelle

Nella pancia di un cingolato può trovarsi un pezzetto del Caos primordiale, e se dall’ oblò si guarda fuori non è meglio.

 

 

 

6 ottobre ’73, festa dello Yom Kippur, Israele contro Siria ed Egitto.

6 giugno 1982, prima guerra Israele/Libano.

Amos Gitai, Ari Folman, Samuel Maoz le hanno combattute e ce le raccontano.

Eran Riklis ha raccontato la “guerra” dei limoni che, dopo La sposa siriana (2004), ha parlato di confini, segnati da un muro o bruciati da odio etnico.

Il conflitto arabo/israeliano è vicino al top delle classifiche quanto a rappresentazione cinematografica dellaguerra nel mondo del secondo dopoguerra, il mondo “pacificato” dagli accordi di Yalta.

Superato finora solo dalla guerra del Vietnam, quasi a pari merito con la guerra nell’ex Jugoslavia e la crisi siriana, si potrebbe stabilireun confronto non più numerico ma sul grado di orrore che si è capaci di rappresentare al cinema.

O, forse meglio, stabilire parallelismi fra i modi che, di volta in volta, il cinema ha scelto per esorcizzarlo, quell’orrore.

La coloratissima scena d’amore body painting, che apre e chiude Kippur (2000 ) aiuta a dimenticare il monocromatismo delfango fetido in cui affondano i barellieri di Amos Gitai in una esasperante lentezza di movimenti da incubo claustrofobico.

La terrificante storiella raccontata dentro il carrarmato di Lebanon sulla morte del padre e sulla maestra che consola l’orfanello e gli “dà unamano” a liberarsi dall’angoscia, strappa una risata alla platea, attanagliata da ossessivi rumori sferraglianti,visioni dibassa macelleria, primissimi piani di occhi terrorizzati e facce annerite e sudate.

O, forse, si può ricordare Il giardino di limoni (2008) della palestinese Sama (Hiam Abbass) ,che continua a frusciare al vento davanti alle torrette di guardiadel muro di Gaza, o la musica di Bach che scende pietosa sul corpicino del bambino terrorista straziato dal carroarmato del Valzer con Bashir (2008).

O, infine, il campo di girasoli appassiti a perdita d’occhio su cui la macchina da presa resta ferma a lungo, in apertura diLebanon, sotto un cielo di immobile fissità che si riempie, in chiusura (stessa ring composition di Kippur) di uncarro armato che copre quasi tutto l’orizzonte.

Sembra abbandonato, ferraglia (come dice la scritta sul fianco) però quante belle corolle gialle avrà schiacciato!

Quattro giovani reclute israeliane, Shmulik,Assi,Hertzel,Yigal, piu' un ufficiale che scende e sale dalla torretta a dare ordini, uno spazio minimo e fetido dentro un cingolato F15, vite che s’incastrano tra loro per un tempo dettato dalla guerra, breve o lungo, non è possibile saperlo.

Si entra in senso letterale dentro le viscere di una guerra, una di quelle guerre sporche del secondo dopoguerra, dove le bombe al fosforo le chiamano fumogeni.

Nella pancia di un cingolato può trovarsi un pezzetto del Caos primordiale, e se dall’ oblò si guarda fuori non è meglio.

Primissimi piani su facce di ragazzi, occhi disperati, epidermidi sudate, annerite, anfibi nell’acqua che ristagna sul fondo, gocciolìo dell’acqua che si fonde al piscio da raccogliere in cassetta, polvere e fumo dall’alto quando si apre il portello ed entra Yamil, il comandante, o buttano giù un cadavere in attesa del’elicottero che verrà ad “evacuarlo”, o un prigioniero siriano in preda a crisi isteriche. viene calato giù

All’inizio tutto bene, facce pulite, partono le presentazioni,

Io sono Shmulik,io Assi, io Hertzel, ioYigal, ciao ciao.

C’è una scritta da qualche parte, neppure davanti ad un cingolato si riesce a dimenticare la retorica:

L’uomo è d’acciaio, il carro armato è solo un pezzo di ferro”. Evviva!

Arrivano i comandi radiotrasmessii, la voce metallica dà il “Benvenuto in Libano”.

Quello che uno si chiede è se accada davvero, a tutto c’è un limite, ma forse alla vergogna no e poi il regista c’è stato, ha combattuto, gli hanno dato il benvenuto, decidiamo di credergli.

Si attraversa una specie piantagione di banani, dall’oblò/mirino si vede solo verde, usciti sulla strada il tank si ferma.

I quattro non hanno l’aria di saperne molto del perché sono lì, del perché a vent’anni sono dentro un carrarmato, qualcuno ha detto di aspettare, e intanto si comincia a sudare, in Libano dentro un cingolato può far molto caldo.

Dalla botola cala giù il comandante, faccia impenetrabile e poco simpatica, dice che bisogna andare a spazzar via un villaggio.

Poi risale su e sparisce dalla botola.
La tensione fra i quattro comincia subito, intanto sul turno di guardia mentre si dorme mezzora, poi sarà molto peggio, decidere di sparare, chi deve farlo, rimettere in moto il carro che non parte e il panico blocca anche le risorse minime dell’intelletto, Ygal è alla plancia di comando ma non ce la fa, finora aveva tirato solo contro mucchi di bidoni, piange e vuole la mamma. Hertzel è un duro, polemizza di continuo, ma sarà suo lo sguardo di pietà e di dolore scambiato alla fine col prigioniero siriano. Assi, semplicemente, diventa pazzo e si fa la barba perché bisogna presentarsi in ordine e sbarbati. A chi? Forse al giudizio divino.

Fuori dall’occhio del tank c’è di tutto: sangue e pelle squarciata, guerriglia lungo le strade, macerie, fuoco e qualche bambino disperso, qualche madre che lo cerca fra gli spari, il solito scenario, nulla di nuovo.

Il nuovo è guardare dall’occhio tondo di un tank, come se la claustrofobia non bastasse neppure il sollievo di stare all’aria aperta a godersi lo spettacolo!

La guerra è li, ma fuori, il mirino l’attraversa ma non la tocca, la realtà è reale ma sembra virtuale.

Un videogioco, quasi.

La linea che divide il reale dall'immaginario, nel cinema d'oggi, è molto sottile e succede anche alla Storia di non sembrare vera, a volte.

Non c’è scampo quando reale e immaginario si fondono, mancano vie di fuga, i quattro sono topi in trappola col prigioniero in manette, l’aria che manca e il silenzio improvvisamente intorno.

Qualcosa non va, si sono persi, era meglio sentire il fuoco che crepitava, la gente che urlava.

C’è sempre un meglio, infatti.

Il finale?

Il campo di girasoli e il carrarmato fermo sullo sfondo, ormai inservibile, la canna puntata verso qualcosa davanti a lui è solo patetica.

 

Dicono alcuni che sulla terra nera
la cosa più bella sia un esercito

di cavalieri; altri dicono di fanti; altri dicono di
navi.

Per me, invece, è ciò che si ama…

SAFFO, fr. 16

 

wwwpaoladigiuseppe.it

 

 

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