Regia di Christopher Nolan vedi scheda film
Fiero e conscio del suo stratosferico successo ottenuto col Cavaliere Oscuro, Nolan decide di investire sempre con la Warner in un progetto più personale e molto ambizioso basato sull’interpretazione del mondo onirico dei sogni, affrontando dunque le sue solite tematiche cercando di incastrarle in un meccanismo narrativo volutamente criptico e magnetico.
Inception proprio per questa sua caratteristica così affascinante nel soggetto e ambiziosa nella messa in scena, ha riscosso parecchio successo ottenendo lo status di cult se non addirittura di capolavoro da parte delle stragrande maggioranza del pubblico, immortandosi così nell’immaginario collettivo soprattutto grazie al finale ambiguo della famosa trottola che è stato oggetto di speculazioni per numerosi anni a venire.
Inception ottenendo questa sua immagine così influente grazie al successo mediatico dei film batmaniani rendendo di fatto Nolan un regista mainstream e il più popolare d’America persino dei grandi nomi del passato, rappresenterà però un elemento deficitario all’interno della poetica nolaniana perché ricercherà da qui in poi una maggiore spettacolarizzazione a discapito della sostanza della drammaturgia.
La settima fatica nolaniana è infatti contrassegnata da un’eccessiva sopravvalutazione perché crolla nelle sue stesse ambizioni nel ricercare l’effetto sorprendente ad ogni costo attraverso una narrazione certamente complessa, ma affetta da una sostanza incredibilmente banale visto l’impianto teorico di partenza, abbandonandosi così in una pretenziosità confusa e inutilmente cervellotica.
A differenza di Memento e The Prestige infatti, Inception ricerca nella sua presunta complessità narrativa a scatole cinesi una verbosità a tratti artificiosa nello spiegare le regole del gioco di prestigio, relegando in questo modo la messa in scena ad un mero esercizio di stile infarcito di una miriade di effetti speciali a volte talmente ingombranti che risultano inutili ai fini della drammaturgia.
La complessità della natura umana viene perciò svilita e snaturalizzata dalla regia a differenza di Memento e The Prestige, dove essa era molto più elaborata ed evocata perfettamente dall’ingegnosa cinematografia nolaniana allora più genuina ed equilibrata.
Inception perde dunque tutte quelle potenzialità che l’avrebbero reso veramente un capolavoro proprio perché stavolta il regista britannico fallisce nel realizzare il suo più grande prestigio, perdendosi di conseguenza nelle sue stesse ambizioni cercando anche di inseguire uno stile “blockbusteroso” che segna definitivamente la pietra tombale a qualsiasi velleità artistica profonda ed intellettuale.
Nonostante tutti questi difetti il film rimane comunque un blockbuster nolaniano godibile e a tratti interessante, che merita quindi un’esplicazione della trama per capire come mai Inception non sia un capolavoro assoluto e nemmeno un film d’autore “geniale” come molti dicono.
La storia si focalizza sulla vita di Cobb, un “estrattore”, in poche parole un ladro professionista in grado di creare ed entrare nei sogni delle persone attraverso un apparecchio a orologeria che permette una condivisione onirica con il suo team di supporto in modo da rubare insieme le idee alla vittima nel suo sogno e consegnarla poi alle aziende di turno che li assoldano.
Un giorno però, in una loro missione Cobb e il suo team vengono scoperti dalla loro stessa vittima a cui stavano rubando l’idea, un CEO di una multinazionale giapponese che intende scoprire la loro tecnica onirica per assoldarli a loro volta per compiere un altro compito più complesso: eseguire un “innesto” che consiste nell’entrare nel sogno del bersaglio e convincerlo nel suo subconscio di un’idea permanente che poi conserverà per tutta la vita. L’obiettivo è quello di convincere il figlio di un proprietario ormai morente di una multinazionale concorrente nel campo dell’energia a scorporarla in tante piccole imprese una volta diventato il nuovo CEO, in modo che la multinazionale giapponese possa diventare l’unica vera leader del settore dell’energia.
L’idea inizialmente sembra folle in quanto mai provata sull’essere umano, ma Cobb accetta l’onere del suo nuovo incarico visto che è l’unico modo per ritornare dai suoi figli negli Stati Uniti in quanto gli è negato l’accesso al paese perché incriminato ingiustamente per la morte di sua moglie.
Dopo aver accettato l’incarico del suo nuovo cliente, Cobb decide di riunire un nuovo team di esperti per preparare al meglio l’ingresso nel sogno del figlio della multinazionale rivale, realizzando un piano certosino che però verrà a messo a dura prova dal subconscio della sua moglie defunta, che farà di tutto pur di ostacolare il team di Cobb insieme agli “anticorpi” del subconscio del bersaglio soprattutto quando dovranno creare tre livelli di sogno rischiando di sprofondare addirittura nell’etere del vuoto assoluto della propria mente.
Indubbiamente l’idea centrale dei sogni e del mondo onirico derivato da essi è di per sé coinvolgente e stimolante da osservare, dove si nota come Nolan si sia divertito a giocare con le varie illusioni e realtà che si mescolano e che stridono, riprendendo anche la tematica del doppio quando viene rappresentata dal subconscio della moglie di Cobb che rappresenta di fatto la coscienza sporca del protagonista.
Realtà e sogno infatti si confondono e si scontrano in questa complessa narrazione a scatole cinesi dove l’ambiguità della morale umana viene a messa a dura prova, infatti il protagonista vivendo per un periodo di 50 anni con la moglie in un mondo idilliaco perde il contatto con la realtà perché quest’ultima fredda, calcolatrice, anonima, sciatta, effimera, dolorosa e imperfetta.
In questa fuga romantica senza tempo e spazio all’interno del loro sogno, i due coniugi si perderanno in un labirinto perfetto che però seminerà i semi dell’imperfezione stessa che poi provocherà i traumi nel mondo reale come la morte della moglie ormai assuefatta dall’idea di vivere dentro un sogno quando in realtà non era vero. Un suicidio causato dall’innesto di Cobb che le aveva piantato per uscire dal sogno, ma che poi nella loro vita reale diventerà un vero e proprio effetto collaterale inverso tanto da portare alla morte stessa.
La ricerca di un’utopia onirica e di una condizione esistenziale stabile ed eterna è dunque l’elemento centrale della pellicola che poi muove l’instabilità onirica di Cobb, che dovrà fare i conti col suo passato nel suo stesso subconscio e durante la sua complessa operazione a 3 livelli di sogno rischiando di mettere a repentaglio la mente di tutti i suoi colleghi.
La costante ricerca dei figli per poter ritrovare quella genitorialità mancata e ripararne la sua natura essenzialmente problematica, è il cuore della vicenda che Nolan vorrebbe far empatizzare allo spettatore all’interno del suo mondo onirico, ma essendo quest’ultimo artificioso ed eccessivamente “spiegato”, il discorso pedagogico e sentimentale perde fascino e svilisce l’intero impianto narrativo che viene eccessivamente sovraccaricato di “sogni nei sogni” e di caratterizzazioni di fatto superficiali a parte quella del complessato protagonista.
La problematica maggiore di Inception risiede dunque nella sua voglia di risultare intellettualmente accattivante e allo stesso tempo uno spettacolo di massa, finendo col diventare un film ridondante nei suoi intrecci narrativi, e banale nel suo messaggio finale, svelando di fatto una scrittura pretenziosa che poi nei suoi risvolti finali si perde su stessa dimostrando nientemeno di essere alla fine un blockbuster non ambiguo, ma insipido.
Il tanto discusso finale “se la trottola cade o no” è di fatto un’ambiguità che non dovrebbe essere tanto discussa per le sue implicazioni narrative aprendo poi mille dibattiti "nerdosi" tra sogno o realtà, ma va letta come una precisa scelta drammaturgica di Nolan nell’evidenziare come il protagonista sia riuscito finalmente a superare il trauma della moglie e che è pronto ad abbracciare quello a cui tiene di più: i suoi figli, l’unica certezza che ha nel mondo reale. Punto. Lieto fine.
Il resto delle interpretazioni sono soltanto frutto di una furba inquadratura nolaniana studiata unicamente per far discutere di una trama in realtà abbastanza lineare rispetto alle complessità narrative ben più intriganti come quelle sulla mente in Memento e quelle sull’illusionismo di The Prestige, dove l’impianto narrativo è molto più asciutto e focalizzato su un preciso schema logico sviscerandolo con gusto.
Concludo dicendo che Inception non è un brutto film perché conserva comunque degli spunti narrativi e visivi interessanti, ma che nella loro esecuzione si perdono in un calderone talmente zeppo di cose da dire che alla fine il sapore della zuppa risulta insipido e poco nutriente, finendo col rimanere un po’ indifferenti e un po’ disorientati a fine visione anche per una scrittura soprattutto prolissa nella sua verbosità nella prima parte della pellicola ed eccessivamente sbrigativa ed “action” nella risoluzione finale.
Il fascino del mondo onirico dei sogni si sciupa così in un’illusione purtroppo mancata da parte del grande prestigiatore nolaniano, che confrontandosi con altre pellicole basate sul contrasto tra sogno e realtà, si ritroverà ampiamente surclassato sia in termini registici che di scrittura.
L’unico punto su cui non verrà decisamente superato dai suoi colleghi a Hollywood è sicuramente l’incasso, che qui raggiunge la cifra più alta di tutta la sua carriera escludendo i due capitoli del Cavaliere Oscuro.
Guadagnandosi così, oltre la riconferma da dipendente privilegiato della Warner, anche l’appellativo di “genio e maestro assoluto del Cinema” dal suo sempre più crescente pubblico fidelizzato nolaniano che lo porterà a ricevere addirittura una grande adorazione quasi “ultraterrena” sul web.
Voto 7+
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