Regia di Christopher Nolan vedi scheda film
Nolan alterna ormai da tempo film di grande richiamo e notevoli incassi (la franchise Batman) a pellicole oniriche e lisergiche, ad inganni visivi stratificati e celati da ingegnosità narrativa e abilità registica. Memento, The Prestige e Inception sono parte di un’unica trappola visiva, un gioco sull’inganno e sulle sue metodologie, sulla narrazione e sulla sua espressione. L’illusione e il racconto effettivo si sbilanciano e confondono, i piani si sovrappongono, gli spazi si unificano e i tempi si confondono in questa trilogia dell’illusione che si denuncia ormai come tale facendo dell’inganno il fulcro stesso del materiale del racconto (e non metafora come in Memento). In ognuno di questi film, il concept registico, il fulcro del racconto è l’eliminazione di un dettaglio, l’omissione di un’informazione che permette ad una narrazione di costruirsi. Ogni film è un inganno, un’illusione apparentemente magica perché basata sulla manomissione consapevole del visibile, rivelato solo in extremis a mo’ di coup de théâtre. Si può quindi tralasciare il fascino intrinseco della narrazione per esaltarne l’inadeguatezza morale, o considerare come evidenza di coerenza il parallelo tra forma e contenuto.
Inception propone invece immediatamente il suo fulcro narrativo come elemento portante del film, strutturato come un’overdose di reiterazioni che rielaborano con superfetazioni il medesimo concetto, approfondendolo e mascherandolo con stratificazioni successive. Dopo aver proposto il funzionamento del gioco narrativo nell’incipit (entrare nella mente per modificarne la percezione e carpirne informazioni), il trauma irrisolto del protagonista viene continuamente ribadito (la morte della moglie) e coadiuvato dal senso di colpa.
Costruito per immagini e sulle immagini, attraverso la struttura idetica dei sogni che si camuffa da film e come tale è percepita, il gruppo dei protagonisti, come in un’edizione retro-futurista di Mission: Impossible, si avventura nelle menti per trarre in inganno ed estrarre informazioni alterando tempo e spazio, in una deformazione della percezione che evoca Matrix senza passare per il cyberpunk.
Ma l’evidenza del sottotesto psicanalitico (il senso di colpa), del pretesto filmico (rinarrare il passato per instillare un’idea) e del contesto spettacolare (un conglomerato di scene d’azione imbricate nel tempo) non fa che celare un’ipotesi inespressa che il film sembra timoroso di avanzare, tema la smentita dell’intera complessità dell’impianto: che tutto non sia che vana illusione. La frequenza della ripetizione del sogno consolatorio (dato per passato ma spostato nel futuro) della ricongiunzione familiare ai figli in giardino, assume un tono macabro nella latitanza dei volti che si immagina sorridenti. La trottola abbandonata a sé stessa come principio di realtà non sembra adeguarsi alle leggi della fisica e continua a girare per non infrangere il sogno. L’happy end sembra l’idea che, nel guazzabuglio di trappole create dal film e dal racconto, deve essere impressa nella mende dello spettatore, come se dovesse convincersi di un lieto fine che tutto nega ed uscire appagato da una sala oscura sulla cui parete è stato proiettato un sogno percepito ad occhi aperti, costruito sulle fondamenta apparenti di una realtà distorta dalla sua stessa visione.
“Inception” rimanda all’incipit, alle fasi primarie dell’elaborazione di un concetto o di un progetto, all’elemento inaugurale da cui tutto consegue, per deduzione o per costruzione. Inception premette i propri ingredienti e li ribadisce per tutta la sua durata, convincendoci della validità di un assunto imperativo, di un presupposto postulato come valido, un inviolabile assioma che solo il dubbio vanifica, unica arma a disposizione dello scetticismo. Perché, forse, il film non è mai iniziato, ed è terminato al suo inizio, mentre il protagonista si perdeva negli unici sogni in cui la sua felicità sopravvive, nell’altrove dell’inesistenza.
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