Regia di Vincenzo Terracciano vedi scheda film
E’ il paese della sposa infelice, quello di Tris di donne. Il nostro paese, l’Italia della crisi e della corsa al gioco disperato, da parte dei milioni di disperati che credono nelle lotterie. Nel paese in cui il gioco d’azzardo, da tanti anni, è una piaga sociale, sebbene sottaciuta, l’unica verità è quella che vede protagoniste molte famiglie italiane alle prese con le crisi domestiche, a causa di uomini e donne che al gioco svendono la propria vita e dignità. Questo è il tema del racconto nel sorprendente film di Vincenzo Terracciano. Un cinema che, finalmente, parla tutto italiano, affrontando tematiche sociali, di cui il cinema inglese e francese sono gli eletti, specie negli ultimi anni. Che il tema del film è il gioco, lo si intuisce dal titolo. Le donne e gli abiti nuziali sono le conseguenze di ogni gioco. Lo sa bene Franco Campanella, un impiegato delle poste in pensione, affetto dalla febbre del gioco. La figlia, Luisa, giovane insegnante appassionata di poesia, deve sposarsi, ma Franco non ha tanti soldi per preparare il felice giorno di sua figlia. Tanti saranno gli sforzi che il papà compirà, tutti con risultati prevedibilmente disastrosi. Infatti, Franco, stretto nella morsa di un piccolo criminale locale, degli strozzini e di chi vive sui problemi di tanta gente come lui, sarà consapevole del suo cammino tutto in discesa. Gli apparirà chiaro come il gioco è sempre una maledizione, d’altronde, lo stesso prete, compagno di gioco, glielo aveva ricordato: “Gioca la vita intensamente, nella gioia e nel dolore”, dimenticando che la salute e la malattia avrebbero preso il posto di ogni altra felicità.
Il film di Terracciano risulta una sorpresa, rispetto ad un titolo da commedia, che ricorda molto i telefoni bianchi. In realtà, si tratta di un film densissimo di contenuti, capace di catturare le emozioni dello spettatore, per merito di un attore ormai imponente e sempre più bravo, Sergio Castellitto, molto credibile nei panni di un padre, sposo dell’ arte dell’arrangiarsi, ingenuamente sciagurato e schiavo, fino alla fine, dell’amore per la sua famiglia. Franco è un uomo tipico della tradizione romantica, perciò molto simigliante al viandante di Friederich, con molti atteggiamenti da crepuscolare, che ricordano la poesia di Camillo Sbarbaro. Seppur brava Martina Gedeck, il suo italiano ‘tedeschizzato’ è straniante; molto bravo anche Paolo Bruglia. Tutti i personaggi, comunque, sono sempre accompagnati dalle poche armonie, in una vita assolutamente di dissonanze, di Nicola Piovani. A ciò si aggiunga un’interessante fotografia (Fabio Cianchetti), fortemente contrastante con quanto emotivamente lo spettatore sperimenta, visto che pone in bella mostra una Napoli borghese, quella del Vomero alto, con più salite, rispetto alle discese, più luci e poche ombre, ma nonostante tutto funzionale alla resa con cui immalinconisce e crea un’aria di disperazione nei protagonisti sullo schermo e al di là di esso. Un cinema sincero, non privo di qualche difetto di sceneggiatura, ma ce ne fossero di film italiani capaci di non lasciare indifferenti coloro che al cinema ci vanno anche per superare i guai della vita. Sebbene con il sogno del cinema.
Giancarlo Visitilli
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