Regia di Daniel Alfredson vedi scheda film
Se nel capitolo precedente si svolgeva un’indagine in ambienti malsani, tra gli spettri dell’ideologia nazista e una misoginia feroce che sfociava nello stupro e nella tortura (il tutto ben rinchiuso nei lussuosi armadi di una famiglia abbiente), questa volta al centro della vicenda c’è il traffico di prostitute dall’Est. O almeno nominalmente: nei fatti il film non indaga nelle pieghe del “trafficking”, nella vita delle prostitute o dei clienti, preferendo rimanere sui protagonisti, i soliti Mikael e Lisbeth, quest’ultima legata all’indagine in modo decisamente personale. Da una parte le motivazioni interiori dei personaggi sono dunque ben ancorate alla vicenda - mentre nel primo capitolo il coinvolgimento di Lisbeth appariva più pretestuoso che nel romanzo - ma dall’altra lo scandagliare un male quasi assoluto di Uomini che odiano le donne evapora qui fin quasi a scomparire. La vicenda si apre quasi a conti già fatti: un giovane si presenta alla rivista “Millennium” con un’inchiesta pressoché conclusa, in cui si citano fatti, personaggi e situazioni comprovate. Ma il promettente ragazzo e la sua compagna fanno presto una brutta fine, e del loro reato viene accusata Lisbeth - da poco tornata a Stoccolma - per via di una pistola lasciata sulla scena del crimine. È dunque sul fronte di questo nuovo intrigo, legato a doppio filo al passato della ragazza, che si orienta il racconto, per altro del tutto comprensibile a chi avesse mancato la pellicola precedente e non avesse letto i romanzi. Lisbeth si conferma un personaggio iconico e la sua forza è sottolineata da un passaggio di rinascita alla Kill Bill (in quel momento, infatti, la giovane indossa pure una tuta), ma il mistero del suo passato era in parte già stato svelato nella prima pellicola e quanto viene aggiunto non fa, in fondo, una gran differenza. L’identità dei colpevoli è inoltre chiara fin da subito e pertanto non ci si trova di fronte a un nuovo whodunnit, bensì a un thriller vero e proprio. Nonostante un buon crescendo finale, La ragazza che giocava con il fuoco è meno feroce del precursore (per via delle improbabili scappatoie concesse ad alcuni personaggi), e vittima di una durata eccessiva in rapporto alla superficialità dell’indagine.
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