Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Un incipit potentissimo. Milano sotto la neve. Un montaggio di dettagli architettonici che rimanda ad Antonioni e poi sussurri e grida di un Gruppo di famiglia in un interno. Il patriarca della famiglia Recchi (Gabriele Ferzetti) si ritira. Cede l’azienda al figlio Tancredi (Pippo Delbono: superbo) e al nipote Edoardo (l’umbratile Flavio Parenti). Il giovane, l’anello estetico della famiglia, sogna un ristorante da gestire insieme all’amico Antonio (Edoardo Gabbriellini, un vigoroso cuoco contadino) di cui la madre Emma (Tilda Swinton: magnifica) s’innamora perdutamente. Io sono l’amore è un melodramma al calor bianco posseduto dallo sguardo lussureggiante di Luca Guadagnino, un regista in grado di modellare plasticamente la propria cinefilia conferendole le forme originali di un universo pastoso, carnale e vaporoso al tempo stesso. Un mondo dal nitore nipponico nel quale lo chignon di Tilda Swinton - pedinato hitchcockianamente - risucchia senza pietà nel proprio vortice sirkiano. Luminescente e rigoglioso come il Minnelli dark di A casa dopo l’uragano, sensuale come il De Palma stilnovista di Complesso di colpa, Io sono l’amore rapisce lo sguardo. Guadagnino infonde a ogni fotogramma un’idea e un’intuizione formale. Esplode i colori e canta spazi impossibili. Io sono l’amore è puro, scandaloso, politico, eccessivo e ambizioso piacere fisico del fare cinema. Come in un intreccio folle di Visconti, Matarazzo e Fassbinder, scandaglia i cuori di un Paese giunto al capolinea del disastro etico. Come in uno specchio. Guadagnino ridicolizza il 97% del cinema italiano.
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