Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Melancholia è il primo film del regista filippino Lav Diaz che ho l'onore e l'onere di visionare.
L'onore perché non è particolarmente semplice recuperare i suoi sterminati film in una versione a cui possa accedere e mi risulti comprensibile; l'onere perché, considerata la lunghezza-monstre che caratterizza pressoché ogni pellicola del regista (questa anzi è una delle più brevi, il che spiega molte cose...), non si può onestamente definire una passeggiata affrontare queste circa quattro ore tutte d'un fiato, meditative e forti di tempi morti deliberatamente resi protagonisti di inquadrature affascinanti e senza fine. Una difficoltà insita non tanto o solo nella durata del quieto e meditativo svolgimento in sé, quanto soprattutto riconducibile allo stile implacabile e dunque coraggioso e determinato della narrazione, che prevede costantemente lunghe riprese ininterrotte di almeno venti minuti ciascuna, con camera rigorosamente fissa (una scelta che mi trova spesso favorevole e a cui sono abituato dopo aver visionato quasi ogni opera del De Oliveira “giovane”...si fa per dire), intenta ad inquadrare una composizione vivente ben definita: uno scorcio di vita nel quale si innesta, nei tempi e nei modi meditati e anti-cinematografici che sono i veri ritmi della vita “vissuta” e spesso sofferta, la storia, o la traccia che solca timidamente ed in modo molto poco appariscente la vicenda narrata.
Diaz, in tutto il tempo che impiega a mostrarci, più che a raccontarci, la sua storia, non perde tempo a spiegarci i contesti, i dettagli, la situazione geo-politica che sta alla base di una vicenda che è intima e introspettiva solo se esaminata in singole inquadrature e non nel suo contesto complessivo: veniamo infatti a sapere da altre fonti che, nelle Filippine, la boscosa ed inospitale regione del Mindanao, una parte della popolazione, spesso istruita e colta, assume da tempo un atteggiamento ostile ed anarchico nei confronti del governo centrale, accusato di coprire scandali e ruberie, in un dilagare di corruzione e compromesso. Tuttavia nell'ultimo periodo i dissidenti, spesso docenti o persone appartenenti alla classe sociale più elevata dal punto di vista della propria preparazione e cultura, si ritrovano come soggetti ad un crollo interiore, ad una resa indiscriminata che li induce a non credere più fermamente nella loro azione di contrasto al dilagare del vizio e della corruzione, e li spinge in uno stato di insicurezza e vulnerabilità che li distrae, conducendoli ad una condizione di apatia e melanconica messa in discussione di tutto il proprio precedente operato.
Per sconfiggere questa destabilizzazione interiore, un uomo e due donne decidono di vestire i panni di altre categorie più “border-line” per tentare di riassaporare il senso dell'indipendenza e ritornare a percorrere il cammino così improvvisamente ed incautamente interrotto.
Ecco che Alberta inizia a prostituirsi, mentre la collega Rina si tramuta in suora, perdendo perà presto ogni più saldo presupposto a continuare in quella recita. Julian invece, l'uomo, si trova ad impersonare il ruolo del magnaccia che, come un tentatore, ostacola o mette in discussione le già poco salde verità che le due donne si sono appiccicate addosso. Intanto Alberta, rettore universitario e prostiituta per “rinascere e motivarsi”, ne approfitta per cercare di recuperare il rapporto con la figliastra adottiva, pure lei finita per scelta a battere i marciapiedi, e figlia di storici dissidenti fatti sparire dal governo nazionale, ed infine probabilmente recuperati cadaveri nel bel mezzo della fitta boscaglia.
Un bianco e nero penetrante e pessimista almeno come quello di Bela Tarr circonda le atmosfere agresti e spoglie in un limbo di attesa senza fine, dove la vita scorre lenta e silenziosa, scalfitta ogni tanto da qualche raro gesto di amichevole e disinteressata complicità.
Il cnema di Lav Diaz vive e si nutre delle attese e dei tempi morti per costruire le sue storie, che come diapositive vengono assemblate assieme in modo solo apparentemente casuale, diventando coerenti e lineari solo se considerate nel loro intersecato complesso.
E nonostante la fatica e l'attenzione necessarie per non perdere concentrazione e il filo già tenue, quasi invisibile di un discorso che appare volutamente abbozzato, come soffocato dallo scorrere impressionante e inevitabile della vita lenta ed inesorabile, quasi infinita, immobile e per questo in un certo senso agghiacciante, più che generatrice di malinconia, Melancholia finisce nel suo complesso per avvolgerci nella sua bruma invadente, che ci lascia storditi e quindi colpiti dalla sua inesorabile, lenta ma implacabile forza d'urto.
Aspettando Death in the land of Encantos, e ci siamo ormai quasi per averlo tutto completo, e magari Century of Birthing, speriamo presto.
Con Lav Diaz il problema è più che altro legato al tempo, di cui egli non si cura, o che comunque è in grado di utilizzare senza alcun timore o soggezione. Il tempo è quello che manca a noi, persone comuni sempre in affanno, troppo spesso materialmente impossibilitati a poterci soffermare come meriterebbe l'opera dell'autore filippino, lungo tutti i chilometri e chilometri di pellicola in cui si estende la sua prolifica ed inesauribile ma recente filmografia.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta