Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Anneghiamo in un mare di immagini, nei film di Lav Diaz, in abissi di trovate visive e composizioni pittoriche, incolori ma dense, apparentemente fredde e distaccate ma in realtà partecipi dei drammi che ritraggono. Diaz è sempre fisicamente distante, e sembra incorporare lo sguardo dello spettatore occidentale, che, dall’altra parte del mondo, si rammarica per i fallimenti esistenziali, politici e sociali che i suoi film raccontano. Ma non è solo questo l’intento di Diaz. Il regista filippino mette alla prova lo spettatore anche del suo paese, lo immette nei ritmi e nelle lentezze dei suoi personaggi, lo affligge, almeno all’inizio, con durate mastodontiche, ma solo all’inizio, appunto, perché una volta entrati nel suo ritmo, e rivolti a lui la propria mente, possiamo veramente, come si diceva, “annegare”. È un cinema geograficamente e artisticamente lontano da noi, lo avvertiamo negli estenuanti ma interessantissimi piani-sequenza, in cui i personaggi vagano come fantasmi in una terra di “Encantos”, come se cercassero, consapevoli della loro fallibilità, di districarsi dal male che li percuote, un male di vivere che in “Melancholia” (no, non ha niente a che vedere con quello di von Trier) si traduce nella mancanza di senso, nel vuoto del proprio essere. Ma non è cinema affrontabile serenamente, né sopportabile per troppi, è piuttosto una pausa dall’affollamento di idee e di immagini (ancora una volta) che colpiscono i nostri occhi a velocità supersonica ogni giorno. È un ritorno all’arte come atto di estrema contemplazione, e di estremo straniamento.
Per affrontare il male che li circonda, i tre protagonisti di questo colossale dramma sociale, Antonia, Rina e Julian, vagano per il loro paese per compiere un “processo”, e rifuggono di quando in quando le loro identità per comprendere tutti gli spaccati sociali. C’è da dire che questo si capisce solo dopo due ore di film, ed è proprio dopo due ore di film che inizia la vera trama, ma in un certo senso Diaz vuole che reagiamo al loro tentativo di comprensione più assoluta della vita, facendoci illudere, come tutto il cinema (tranne forse il suo) illude. Non è una cattiva illusione, quella del cinema, ma tanto Diaz penetra nel reale senza orpelli e senza superficialità (nonostante i tempi morti), che viene da domandarsi se non voglia, nelle prime due ore di questa sua opera, parlare di cinema, di maschere pirandelliane, o semplicemente avviare originalmente la storia. Avremo tempo di porci tutti questi quesiti nei lunghi tempi morti funzionali al significato del film, momenti morti che si intromettono fra un discorso e un altro. Ma nel frattempo osserviamo un’evoluzione narrativa che in “Death in the Land of Encantos” non c’era, non era così evidente, annacquato com’è quella pellicola in astratti pensieri. Se nel film del 2007 era la mente sostanzialmente ad uscire sconfitta da un paese che è diventato “un inferno”, come dice Julian nella parte di Danny Boy all’inizio di “Melancholia”, qui è il corpo ad uscirne screditato di qualunque dignità, con la commercializzazione del sesso nel ruolo di prostituta di Antonia, nel lavoro di Julian/Danny Boy, che organizza spettacoli per guardoni, e per contrasto nel ruolo di Rina, suora che chiede l’elemosina. Ma tanto le identità fuggono dai loro corpi, tanto tutti e tre trascinano e si lasciano trascinare in umiliazioni e oscenità, che Rina reagisce male, e non ce la fa più. E mentre Danny Boy rifiuta di tradirsi di fronte a nuovi clienti alla chiamata disperata di Antonia, sarà propria quest’ultima a risentire fisicamente della sua trasformazione, poiché subirà la trasfigurazione di un dolore allo stomaco che il suo personaggio affronta continuamente dopo la supposta violenza sessuale ricevuta dallo zio durante l’infanzia.
Presto però il film si trasforma, e si arricchisce di drammaticità e patos. I componenti del gruppo socialista che cerca di affrontare questo processo stanno impazzendo, ci sono donne che si vestono da uomini e si nutrono di libri, uomini che si vestono da donne e si lasciano andare agli istinti più primordiali, coppie di uomini e donne che si intrattengono in balli in cui si attorcigliano l’uno all’altro, e ci sono Julian e Antonia che, tornati alla loro vita borghese, si sentono poco tranquilli. Ed è qui che compare Hannah, una vera prostituta, figlia adottiva di Antonia, che fa vivere senza finzioni e senza precetti politici la verità della crisi economica ma soprattutto morale delle Filippine. Una perdita del senso comune percepibile anche dai giovani (nei balli invasati e disastrati durante un concerto nella seconda parte del film), che non si pongono nemmeno precetti politici.
C’è tensione e stupore nel cinema del regista filippino, c’è una gran voglia di mettersi in gioco. Però egli si contiene e cerca di osservare oggettivamente la bassezza e la povertà spirituale di uomini non solo filippini ma di tutto il mondo, e questo è evidente specialmente nella bizzarra sceneggiatura che propone un’insolita alternanza di lingue, filippino, inglese e addirittura francese, come a voler estendere senza barriere il messaggio della sofferenza.
La seconda parte del film è decisamente più pesante, perché si avvale di una lunghissima divagazione che solo dopo un’ora e un quarto rivela il suo senso, o i suoi svariati sensi: i tre soldati che percorrono la giungla sull’isola vergine, esplosione della natura in tutta la sua onnipotenza e bellezza, ma la cui, appunto, bellezza, non risolve (come dice un soldato) il dolore di cui “è pieno questo inferno”, sono nella fantasia di Julian, e tentano (fallimentari anche nel sogno utopico) di portare il comunismo in nuova comunità? Sono semplicemente in preda a un delirio diverso da quello di tutti i pazzi sognatori politici, per cui si sono lasciati andare alla violenza? O sono loro i desaparecidos che sembrano causare in chi è rimasto tanta amarezza? Oltre a questa divagazione, ci sono parentesi abbastanza bizzare, anche musicali, finché Diaz non arriva alla sua catarsi, meno potente di quella profondamente metafisica di “Death in the Land of Encantos”, ma altrettanto significativa: l’arte non nasce per risolvare il dolore, l’arte nasce perché c’è il dolore, lo racconta ma non lo risolve. Forse qui si cela la profonda motivazione del punto di vista di Diaz: uno sguardo impotente, com’è impotente tutta l’arte, che vive dell’illusione salvifica della bellezza. Anneghiamo nei suoi lunghissimi piani sequenza che, come l’infinita successione di eventi della vita (come dice ancora una volta il soldato di prima), misurano la sofferenza umana. 460 minuti di esistenziale agonia.
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