Regia di Cristian Mungiu, Ioana Uricaru, Hanno Hofer, Razvan Marculescu, Constantin Popescu vedi scheda film
Manifesto collettivo della Noul Val, “Racconti dell’età dell’oro” è quel tipo di opera che testimonia la coesione e l’unità d’intenti di una cinematografia nazionale. Fatto sempre più raro, data la globalizzazione imperante nonchè il suo rovescio della medaglia: l’individualismo sfrenato delle “politiche autoriali”. Cinematograficamente, la Romania dell’ultimo ventennio (come il Cile nello stesso periodo o la Spagna degli anni 80 e 90) sta vivendo quello che l’Italia visse negli anni 50 e 60: il post-dittatura, con tutto il suo carico di entusiasmo e fervore creativo, dettato anzitutto da una voglia insopprimibile di recuperare il tempo perduto negli anni bui.
Esattamente venti anni dopo la caduta di Ceausescu, avvenuta al termine di un decennio di miseria per la Romania, parecchio al di sotto anche rispetto agli standard degli altri Paesi comunisti, un gruppo di giovani cineasti romeni, alcuni di essi già affermati, opera questa ricognizione sugli ultimi anni del regime, assumendo un tono che non è più quello opprimente del capolavoro di Mungiu “4 mesi 3 settimane 2 giorni”, ma quello grottesco e surreale del Porumboiu di “A est di Bucarest”. Nella versione italiana dei “Racconti” sono rimasti 4 episodi dei 6 originali e non ci è dato sapere chi sia il regista di ciascuno di essi. Ha poca importanza: l’omogeneità di approccio, tematiche, tempi e stile è forse il valore più significativo di questo film.
I temi cardine ruotano attorno a due poli principali: quello istituzionale (primo e terzo episodio) e quello economico (secondo e quarto episodio). Lo stile è tendenzialmente umoristico, volto a mettere alla berlina i paradossi del socialismo reale; la messa in scena è essenziale, al servizio del testo; talvolta il (sur)realismo di fondo sfocia nella metafora politica. Il primo racconto si tuffa nel folklore contadino e bacchetta l’arroganza/idiozia dell’apparato comunista: una giostra, che ospita funzionari e popolani tutti assieme, e un gregge di pecore offrono un supporto allegorico per scardinare l’ipocrita concetto comunista di uguaglianza. Il secondo episodio, apice del film (presumo diretto da Mungiu), è quello dal tono più drammatico: fra Kieslowski e Bresson, si articola un laconico ed allusivo trattato di economia politica, che nella critica allo statalismo riesce ad inglobare organicamente discorsi morali ed esistenziali che coinvolgono frustrazioni coniugali, solitudine, desiderio erotico sommesso, fino alla tentazione (squisitamente noir, con tanto di femme fatale) di trasgredire la legge per fare il salto di condizione sociale.
Il terzo racconto è forse il più debole: una satira della censura giornalistica, un po’ telefonata nel suo andamento, anche se non priva di momenti spassosi. L’ultimo episodio è invece il più bizzarro e sgradevole, con un maiale asfissiato a fungere da metafora sarcastica e definitiva dell’oppressione di Ceausescu: vi si riprende il tema dello scambio clandestino di beni alimentari, come alternativa alle sempre più scarse provvigioni fornite da mamma-Stato. Complessivamente il film centra tutti i suoi bersagli e, per la qualità di scrittura e la tenuta registica, andrebbe preso come modello da tutte quelle cinematografie nazionali che vorrebbero (dovrebbero!) parlare del proprio Paese, in quanto popolo, collettività, insieme di persone dalla Storia e dai valori condivisi. Capito, Italia?
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta