Regia di Joseph Kosinski vedi scheda film
Nel 1982 "Tron" fu la pellicola di fantascienza che sfoggiò per la prima volta la futura ed inflazionatissima CGI; non si limitò solo a rappresentare un comparto tecnico che ai tempi era del tutto inusuale, ma riuscì ad affascinare una piccola cerchia di fan grazie alla magica realtà virtuale in cui si ambientava la storia, e allo stile autentico dei costumi e delle personalità che vennero profilate. La "trama informatica", però, era ancora criptica per l'utenza media, che, a quel tempo, non aveva certamente il vantaggio di avere familiarità con i nuovi elaboratori di calcolo. "Tron" quindi rimase un prodotto di nicchia, sconosciuto dal grande pubblico (si dice addirittura che il tie-in a gettoni fosse più famoso dello stesso film da cui era tratto), ma venerato, o quasi, dagli appassionati d'elettronica, che nel periodo in cui uscì il primo capitolo erano degli adolescenti brufolosi i quali cercavano ancora di imparare il vocabolario del Basic; anno duemiladieci, periodo di punta per remake e seguiti di vecchi successi o cult trentennali, ma anche era in cui le comunità nerd cominciano ad essere un target da prendere in considerazione per la "nuova merce" che rivitalizza i vecchi franchise. La Disney ripropone Tron con questo sequel, che, di leziosa spettacolarità ne garantisce tanta, ma di emozioni non un granché. Il primo errore è stato commesso nel casting. Il protagonista, Garrett Hedlund, qui interprete del figlio di Jeff Bridges, è parecchio distante dal carisma che avrebbe dovuto avere il suo personaggio, e dà fin da subito l'impressione di un fighetto hollywoodiano che di ragazzine ne attirerà molte, ma in un contesto del genere si rivela abbastanza fuori posto. L'espressione del viso, in particolare, è perennemente uniforme, e la sua spalla femminile, impersonata da Olivia Wilde, appare sciatta e decisamente inefficace nella farraginosa presenza scenica. Lo stesso intreccio che si sviluppa attorno a questa vicenda è stato costruito in maniera così moscia e priva di idee originali da far diventare le due orette di lungometraggio piuttosto pesantucce per essere seguite con la dovuta attenzione. Lo script è oltremodo scialbo nel meccanismo narrativo e l'azione difetta di una dinamica legnosa, sovraccarica di elementi dalla grafica svenevolmente patinata, anche se Bridges riesce comunque a rendere qualche dialogo moderatamente interessante. Tutto un altro discorso invece per l'accattivante production design: frutto di geniali tecniche artistiche che fondono perfettamente le tute di gommapiuma, composte da luminose e cangianti luci psichedeliche, con dei paesaggi geometrici policromi in grado di mostrare in tutto il suo splendore la favolosa "struttura algoritmica" del mondo di "Tron Legacy". Abbastanza impressionante il lavoro di re-editing digitale per ringiovanire il volto di Bridges con l'ausilio di un casco a sensori, ma, a mio avviso, in "Avatar" il "miracolo" è stato un tantino più allettante (almeno sul fronte degli effetti). Musiche dei Daft Punk seducenti. Alcune delle quali mi ricordano con piacere i vecchi temi electro/sperimentali utilizzati in alcuni classici cyber-punk dei primi anni ottanta.
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