Regia di Cary Fukunaga vedi scheda film
Due anni prima di Jane Eyre, Cary Fukunaga scrive e dirige Sin Nombre: una cruda storia di emigrazione ambientata nell’America Latina, di fronte alla quale il pensiero corre immediatamente a Trade; e non solo per il ritorno, da protagonista, della giovane e talentuosa Paulina Gaitán. Con il film diretto da Marco Kreuzpaintner quest’opera ha in comune soprattutto la primitività con cui l’individuo viene fatto oggetto di commercio, di sfruttamento, di massacro. Sul volto corrugato della miseria scorrono a fiumi gli umori acidi della violenza, verdi come la vegetazione tropicale, giallastri come l’erba secca, la terra battuta, l’aria polverosa arroventata dal sole. L’atmosfera è impregnata dell’odore della carne, umida di sudore, di sangue, di acque fangose, che si mescola all’acre sentore del ferro arrugginito, di cui sono fatti i binari, le armi, i rottami. L’emigrazione dall’Honduras, attraverso il Guatemala e il Messico, fino agli Stati Uniti è ritratta come una volontaria deportazione di massa, con treni presi d’assalto da folle di disperati che si arrampicano sui tetti dei vagoni, e in quella scomoda e pericolosa posizione percorrono centinaia di chilometri. Sayra, la ragazzina che viaggia insieme al padre ed allo zio, è una delle tante persone in cerca di un’opportunità, di un lavoro, di una vita meno umiliante. Eppure c’è chi, pur appartenendo a quella stessa gente, approfitta della situazione per rubare, a quei poveri diavoli, i pochi averi che portano con sé. Sono i mareros, gli appartenenti alle bande indigene, in cui si manifesta una forma selvaggia di criminalità organizzata, caratterizzata da riti tribali e da una cultura della vendetta che travalica ogni senso dell’umanità. Il capo della mara a cui appartiene Willy, detto El Casper, uccide la sua fidanzata durante un tentativo di stupro; Willy, a sua volta, lo sgozza durante una rapina e, in quello stesso istante, firma la propria condanna a morte. Nonostante il ragazzo sia costantemente braccato, anche fuori dai confini della sua terra, dai suoi ex compagni, Sayra finisce per vedere in lui un confidente, un amico, un rifugio che le infonde sicurezza e le ispira amore. Il tenero romanticismo di un’adolescente, reso silenzioso dall’angoscia e dalla tribolazione di un percorso tanto pericoloso e difficile, segna comunque una scia di dolcezza in mezzo ad un ambiente in cui i colori della fantasia e della convivialità della cultura messicana sono ridotti a smalti graffiati e sporchi, malamente appiccicati sulla superficie accidentata di un mondo in rovina. Ad ogni fermata di quei convogli sovraccarichi, l’ambiente smette di essere un paesaggio naturale in movimento, per diventare il residuato di una civilizzazione fallita, un teatro cadente in cui la modernità resta accampata nell’attesa che la popolazione sciolga i dilemmi riguardanti la sua identità, e decida in quale direzione vada imboccata la via del futuro. Intanto, dietro gli scheletri di cemento e le montagne di detriti, rimane, in perenne agguato, un mostruoso sortilegio, che spinge a trovare nell’abisso del male l’energia per sopravvivere ed andare in qualche modo avanti. L’illegalità è frutto della necessità (vedi l’attività dei passeurs alla frontiera americana), ma la spietatezza è diretta emanazione di un’anima diabolica, che sadicamente si nutre, compiaciuta e mai sazia, delle sostanze altrui. Sin nombre riesce a fondere, in una storia ricca di sferzante realismo e di suggestioni visive, la descrizione della bestialità con il tessuto drammatico, il ritratto etnografico ed il messaggio sociale. E ne fa il nerbo di un racconto che non si affida mai alla semplice forza espressiva della durezza, bensì mantiene saldamente in mano il filo tagliente della tensione narrativa: una tensione che qui sembra fatta apposta per consumare lentamente, morso dopo morso, fino all’ultimo brandello di speranza.
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