Regia di Richard Kelly vedi scheda film
Arthur C. Clarke disse: qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. Così quando un film è talmente ritorto entro se stesso da non poter essere completamente capito, tende ad assomigliare ad un pacco. Il pacco ricevuto dalla bella famiglia può essere una fregatura, il tizio con la faccia scarnificata dal fuoco, Arlington Steward ( un mefistofelico Frank Langella) dice che premendo il bottone una persona a caso nel mondo morirà e si avrà in dono per il disturbo la bella cifra di 1.000.000 di dollari.
“Esentasse”, specifica il tizio, segno che tutto il mondo è paese.
Invece (forse) non è una fregatura (ma se non lo fosse di che parlerebbe il film?), lei, Norma Lewis regina della casa e del paradiso di una bella famiglia sull’orlo di una crisi economica, si sveste da Eva, segue il serpente e coglie la mela premendo il bottone che le spalanca la realizzazione dei desideri. Quelli più terreni s’intende, tipo conservare lo status sociale e la Corvette del marito e magari farsi la plastica ad un piede menomato. E’ il 1976 e gli Stati Uniti cominciano a pensare a Marte come prossimo viaggio spaziale , penetrare il cosmo e carpirne i segreti. Ma dove c’è NASA, Governo, Sicurezza Nazionale ormai si sa, c’è del marcio. E non siamo in Danimarca. La fiaba del buon samaritano che dona dollaroni sonanti a discapito della dipartita altrui si trasforma in una tragedia shakespeariana, l’Eden muta in inferno, la magia è mutuata da una scienza della quale non si sa nulla e che nulla spiega ritrasformandosi di nuovo in magia. Il reale e il soprannaturale si fondono in un maelström che tutto ingoia.
Bello, a patto di posare il cervello sul posto libero di fianco (tanto non c’è gente di questi tempi al cinema) e lasciarsi trasportare dalle atmosfere di Richard Kelly, autore del celebrato “Donnie Darko” (2001) che se nei suoi film non mette una dislocazione sensoriale, un paradosso temporale o un portale per altre dimensioni evidentemente non dorme la notte.
“The Box” è la riduzione cinematografica del racconto “Button, button” (1970) del grande scrittore americano di fantascienza Richard Matheson, l’autore di capolavori come “Io sono leggenda” (1954) e “Tre millimetri al giorno” (1956) che hanno beneficiato di più di una trasposizione cinematografica anche se non sempre all’altezza – vedi l’ultimo “I sono leggenda” (2007) di M. Lawrence con Will Smith, il serial killer della fantascienza classica -.
Matheson ha scritto tanto anche per il cinema e la televisione, sua la sceneggiatura di “Duel” (1971) primo immortale film di Steven Spielberg e di tanti episodi dei telefilm “Ai confini della realtà” dei quali proprio “Button, button” faceva parte. Scrittore molto attivo negli anni ’50 e ‘60 è riuscito a trasferire su pagina le inquietudini di quel determinato periodo storico calando nella quotidianità e nei sentimenti delle persone normali il terrore dell’atomica, del pericolo di omologazione comunista e della guerra fredda, declinandolo nel contesto fantascentifico, metafora dell’incomprensibilità del progresso e relativo assoggettamento ad un potere occulto, dominante.
I romanzi di Matheson sono senza tempo e facilmente adattabili a qualsiasi epoca poiché focalizzati sulle pulsioni archetipiche che muovono l’essere umano nel suo mondo, i bisogni primari e le paure primordiali sono mostrati e messi a confronto con l’ignoto che si palesa.
Il film è un sofisticato B Movie ancorato all’immaginario science-fiction anni ’50 e in gran parte non tradisce le caratteristiche del racconto. L’impianto onirico di Kelly è funzionale allo spaesamento in cui piombano Norma (Cameron Diaz) e Arthur Lewis (James Marsden) nel riconoscersi oggetto della legge del contrappasso, vittime “in pectore” della stessa scelta scellerata compiuta da altri, sedotti dal mors tua, vita mea che la scatoletta con bottone mette materialmente in atto. Lo scoprire una società parallela rispetto a quella della tranquilla della provincia americana ricorda invece nelle atmosfere l’immortale metafora paranoica de “L’invasione degli ultracorpi” (1956) di Don Siegel.
La tensione viene tenuta costante per almeno tre quarti di pellicola, l’unica debolezza si palesa quando per alleggerire le sinapsi degli spettatori concentrati sul “perché”, affiora qualche crepa nella sceneggiatura cedendo alla tentazione dello “spiegone” del cinema classico americano, quello che risolve misteri inestricabili nelle ultime cinque battute del film.
Fortunatamente non è così, le spiegazioni sono, in linea con il resto del film, di spessore metafisico e si fermano ad un metro dal ridicolo restando in bilico tra la realtà della scienza esplicabile e la magia da godere e subire. Non c’è frenesia, l’atmosfera ha il sopravvento sui personaggi che si muovono immersi in una luce irreale, fasulla come quella di un sogno. E come in tutti i sogni vengono proposti continuamente dei bivi, delle scelte alle quali corrispondono delle conseguenze, sempre facendo leva sugli istinti più intimi dell’essere umano. Soprattutto il regista non ha paura ad andare fino in fondo rifiutando facili compromessi buonisti. Dopo tutto se l’inevitabile si chiama così una ragione ci sarà.
Così il marchingegno col bottone passa di mano in mano, di famiglia in famiglia, scoprendo i nervi e le frustrazioni della società borghese disposta a rimuovere la colpa in nome della realizzazione personale, cosa per la quale pagherà un prezzo altissimo. Una decadenza che trova la catarsi in un giochino malefico, campionatura di un giudizio universale imminente. Ogni volta che si preme il bottone qualcuno muore e il bottone lo preme sempre Lei. E’ Eva che è attratta dal serpente. Più archetipico di così……
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