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Stanno tutti bene

Regia di Kirk Jones vedi scheda film

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La recensione su Stanno tutti bene

di (spopola) 1726792
4 stelle

Non amo quasi mai i remake americani di successi (o presunti tali) già realizzati (e meglio) nella vecchia Europa o in qualche altro paese del continente “mondo”. Le ragioni del mio “dissenso” le ho più volte espresse anche recentemente, e penso che non sia il caso di ripetermi ancora. Ribadisco soltanto che  al di là di una motivazione che immagino essere di carattere meramente commerciale ed economica, ne capisco poco il senso. Mi sembra anzi un “vizio  assurdo” di desolante inutilità  visto che poi alla fine i risultati difficilmente valgono gli originali già disponibili e “certi”. 

Se il mio giudizio è quindi più o meno negativo (salvo rarissime eccezioni) quasi in linea di principio (e magari sbaglio perché non è mai una buona regola fare di ogni erba un fascio “a prescindere” senza i necessari distinguo) diventa particolarmente severo se il rifacimento di tale singolare “autarchia” tutta americana riguarda opere già mediocri in partenza, come è appunto il caso di questo Ewerybody’s Fine,  rielaborazione in salsa yankee del più debole e melenso fra tutti i film di Giuseppe Tornatore (il mediocre “Stanno tutti bene”  realizzato nel 1990, apprezzabile – punto di vista assolutamente personale e quindi discutibilissimo - solo per essere stato un ottimo veicolo per esaltare le doti interpretative di un attore del calibro di Marcello Mastroianni, ma talmente “costruito” e inquinato da troppi stereotipi, da risultare persino irritante in alcuni tratti).

Non ci sono molte differenze narrative nemmeno questa volta (se non quelle necessarie all’aggiornamento geografico della storia, dei tempi e dei costumi) in una pellicola che ha una confezione certamente molto curata (sotto questo aspetto Hollywood non delude mai) ma insufficiente inventiva e soprattutto  troppo poco cuore (se non si vuol confondere il languore con l’emozione). Un film insomma che si conferma pieno di luoghi comuni ed estenuanti svenevolezze sentimentali, e dove alla fine il tema centrale (non sfruttato al meglio) rimane ancora quello dell’insormontabile divario che esiste sempre tra “illusione” e “verità”, qui  trattato quasi come un teorema da dimostrare a tavolino, e quindi con un andamento spesso “forzato” e molto artificioso, quasi del tutto svuotato di senso, poiché  questa revisione  risulta poco significativa anche sotto il profilo di quella tenue critica sociale che si poteva leggere nell’opera di Tonatore, che attraverso  una storia minimale come questa  e troppi  mal riusciti tentativi di far poesia, sulle tracce di un fellinismo di maniera, aveva per lo meno l’ambizione di voler raccontare in filigrana lo sfascio morale dell’Italia di quegli anni.

E’ il regista e sceneggiatore Kirk Jones  che si è incaricato di esportare nel Midwest americano la parabola esistenziale di un uomo che approcciandosi alla vecchiaia e alla malattia, avverte un impellente bisogno sentimentale di colmare molti vuoti di un’esistenza vissuta soprattutto sotto la cupola protettiva dell’affetto ossessivo della moglie, e di fare una specie di bilancio ricognitivo andando alla (ri)scoperta  dei suoi figli  (mi verrebbe da dire “incomprensibilmente smarritisi nel nulla”, o peggio a lungo “dimenticati nella macchina in sosta”) per verificare non solo cosa sono in effetti diventati, ma anche e soprattutto “quanto sono felici”.

Ad innescare la miccia è proprio la dipartita della moglie, quell’essere rimasto solo che induce l’uomo a voltarsi indietro per cercare di “riannodare i fili” (uso non a caso questo concetto, poiché si tratta di una metafora  - i “fili” come veicolo di contatto e di comunicazione, una vera e propria litania ripetuta all’infinito -  chiaramente espressa nella pellicola, a partire dalla professione del protagonista, che ha consumato la sua attività lavorativa proprio  “tra i fili” con l’incarico di ricoprire di plastiche tossiche i cavi di comunicazione di treni e telefonia).

Ha bisogno di sapere, di verificare, di avere conferme quest’uomo, ed è proprio per tali ragioni che decide di mettersi in viaggio per andare a trovare i suoi quattro figli, che nella loro ostentata lontananza mai prima di quel momento realmente verificata (o vissuta come una privazione), immagina appagati e risolti (felici insomma) esattamente come aveva desiderato che accadesse quando erano piccoli (strano però che con tanto amore “paternale” non avesse mai avvertito in tanti anni il bisogno di mantenere per lo meno attiva la linea di comunicazione degli affetti, non vi sembra?).

Non sarà però così semplice il viaggio e il contatto (o la “ricongiunzione,” se vogliamo dirla meglio), anche perché le distanze americane sono davvero molto più dilatate di quelle della nostra penisola e l’impresa di conseguenza molto più ardua: New York, Chicago, Dallas e Las Vegas sono le mete da raggiungere (inevitabilmente pure questa volta i figli sono dislocati quasi agli antipodi l’uno rispetto all’altro, così da movimentare un po’ le cose e legittimare molti spostamenti in treno) da un protagonista troppo lamentoso e scontento (così mi sembra che ci venga rappresentato) anche se forzatamente ottimista almeno in apparenza. Soprattutto uno dei suoi figli (quello che fa il pittore) risulta sfuggente ed introvabile: non risponde agli appelli né si presenta all’appuntamento (ne scopriremo poi le ragioni che è opportuno non rivelare qui, uno dei punti su cui ci sarebbe più da discutere comunque, proprio rispetto alla realistica veridicità dei rapporti e delle connessioni), mentre gli altri tre – scolorite figurine tardo yuppie in odore di artisticità, come le ha definite Federico Pedroni su “Duellanti” - che di professione fanno una la ballerina, l’altra la pubblicista e l’ultimo il musicista, alla fine rispondono all’appello dimostrandogli persino comprensione (anche se nessuno ci spiega poi le ragioni reali che hanno interrotto per così tanto tempo il flusso dei contatti in entrambe le direzioni) ma mantenendo sempre in qualche modo “la distanza”.

Il problema principale dell’opera sta comunque a mio avviso nella assoluta, totale incapacità di creare empatia fra i personaggi: se il primo figlio è scomparso e non si trova, nemmeno gli altri che si dichiarano comunque contenti e realizzati (e pretendono di sembrarlo almeno in apparenza),  risultano poi conformi e all’altezza delle aspettative di cotanto genitore, che probabilmente sta chiedendo loro davvero troppo dopo tanta assenza  (o se vogliamo essere ancora più precisi , “disinteresse” conoscitivo) e non sono di conseguenza molto ricettivi e disponibili a ricreare effettiva empatia (presentano spesso – lo scrive  Pontiggia – solo una stupefatta fissità espressiva al limite della narcolessia).

Alla fine, e dopo aver digerito l’assurdo di certe situazioni, allo spettatore rimane dunque poco altro che l’interesse e la curiosità (era già così con Tornatore rispetto a Mastroianni) di verificare il risultato dell’apporto di un grande interprete come De Niro che sembrava un tantino alla deriva negli ultimi tempi (incomprensibili le scelte che lo hanno portato  ad accettare troppi ruoli solo “commestibili” che non gli potevano rendere giustizia) che qui – magari in altre mani registiche – poteva avere di nuovo pane per i suoi denti, ma che non viene invece sfruttato fino in fondo e in base alle sue effettive potenzialità come sarebbe stato necessario che accadesse: per carità, è sempre un “mostro di bravura” questo grande attore, persino  troppo controllato in questo caso e che di conseguenza limita gli eccessi “creativi” a cui ci ha da sempre abituati, al minimo sindacale, come si dice in gergo (coprendosi persino il volto in un passaggio molto drammatico che richiede il pianto al fine di contenere l’emotività di una “scena madre” come quella). Una resa che mi sembra di poter definire più di ammirevole routine che di “passione”, e di conseguenza non raffrontabile con le eccellenze delle sue migliori stagioni passate, delle quali almeno io avverto una fortissima nostalgia. L’attore infatti incarna qui con consumato “mestiere”  (direi più che altro con quello) un tipico padre di famiglia onesto ed apprensivo per l’avvenire dei propri figli (un po’ tardivamente per la verità, soprattutto in un caso), e fa davvero il possibile per salvare il salvabile e renderlo credibile, poco sorretto com’è da una struttura psicologica bidimensionale del personaggio affidatogli, resa ancora più ovvia da uno script davvero suoi generis, un compito che onora  in ogni caso professionalmente, ma come si è già detto, con una fin troppo programmata tempistica recitativa, nella quale l’attore sembra ricercare più che l’esibizione, la misura.

Il cast di contorno (Drew Barrymore, Sam Rockwell, Kate Beckinsale) è indubbiamente altisonante, ma abbastanza svogliato devo dire (ed anche deludentemente sottoutilizzato), e si riscatta solo a tratti (troppo poco) con qualche inaspettato piccolo guizzo di bravura.

Insomma complessivamente un film inutilmente dispendioso di energie (e di soldi), ma anche di talenti, che difetta di anima e di “autentiche” emozioni, in cui il senso dell’insoddisfazione e del dolore sembra che venga espresso soprattutto ricorrendo a una eccessiva sottolineatura degli stati d’animo esplicitata più che dalla recitazione, attraverso l’utilizzo di una colonna sonora di una banalità imbarazzante, infarcita di musiche originali troppo zuccherose e nobilitata in parte (si fa per dire) da un titubante tentativo di recupero “in corner” con l’inserimento di alcune ballate prelevate con molta distrazione (nel senso che si poteva fare di meglio) dal repertorio del Country Rock.

Persino la fotografia (di Henry Graham altre volte eccellente) eccede spudoratamente – evidentemente rispondendo alle esigenze imposte dal regista – in tonalità autunnali molto rarefatte che fanno davvero molto “spleen dell’anima”.

Alla pellicola non giovano inoltre nemmeno, oltre a una ripetuta tendenza a proporre e riproporre concetti già ampiamente chiariti e definiti in precedenza, la moltitudine (se ne contano quasi una decina) di prefinalini ridondanti e didascalici (o comunque infarciti di una languida pacatezza che mira all’effetto elegiaco) e soprattutto una  chiusura – per altro ampiamente prevedibile – decisamente lacrimosa, ma tutto sommato anche consolatoria.

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