Regia di Tom Ford vedi scheda film
Christopher Isherwood (1904-1986) è stato indubbiamente uno degli autori più importanti e significativi della letteratura di lingua inglese del secolo scorso, e il suo Un uomo solo può essere considerato a pieno titolo, oltre che un bellissimo romanzo e un’altrettanto toccante storia d’amore, anche una pietra miliare del movimento di liberazione omosessuale, poiché è un libro nel quale credo che l’autore sia riuscito ad introdurre molte cose che non si possono certo considerare autobiografiche in senso lato, ma che riflettono indirettamente molto della sua vita e del suo essere stato attivo nella battaglia per il riconoscimento di una parità e di un diritto negato. Come il George Falconer del suo romanzo infatti, anche Isherwood era stato un maturo professore omosessuale inglese proprio negli Stati Uniti degli anni ’60 che fanno da cornice al racconto, e come Falconer anche Isherwood è stato protagonista di una straordinaria e prolungata “unione sentimentale” (che si può a pieno titolo definire un felice “matrimonio” d’amore) sia pure con una conclusione per fortuna meno drammatica e repentina, della quale rende comunque testimonianza con appassionato vigore. Altro elemento identificativo è dato dal ruolo fondamentale che ha nel libro (e di conseguenza anche nel film) la figura e l’opera di Aldous Huxley, scrittore legato a Isherwood da un profonda amicizia, che ha anche a mio avviso influenzato molto non solo la sua vita, ma anche la sua carriera letteraria e la lezione su Aldous Huxley che fa all’università è qui centrale e inequivocabile proprio nel definire poi alla fine che l’esperienza non è quel che accade a una persona, ma bensì ciò che una persona fa di quel che gli accade.
Decidendo di passare alla regia, Tom Ford, stilista alla moda e sulla cresta dell’onda (formatosi alla scuola di Yves Saint Laurent e Gucci), ha scelto proprio questo testo per il suo debutto e credo che all’annuncio molte siano state le perplessità sui possibili esiti dell’operazione. Devo dire però che il risultato è stato estremamente positivo e che Ford ha dimostrato già con quest’opera prima, di possedere un “talento” speciale anche per meritarsi un poso di assoluto rispetto nell’affollato mondo della settima arte.
Infatti, nonostante alcune non secondarie differenze con l’originale, il suo adattamento in immagini, ha una straordinaria aderenza con la fonte letteraria, tanto che nonostante le “variazioni”, non tradisce mai minimamente l’assunto (anzi, semmai l’aggiorna un poco rendendo più “attuali” certe lacerazioni). Si può ben dire dunque (ed era impresa tutt’altro che scontata e facile anche per un navigato regista) che è riuscito “a cogliere l’essenza” e a rendere con estrema precisione ed eloquenza proprio la dolorosa elaborazione del lutto di fronte a una perdita così irreparabile e improvvisa.
Tutto concentrato in una sola giornata “molto particolare” che dovrebbe essere anche l’ultima dell’attempato professore rimasto troppo solo dopo la perdita del suo amato compagno e con frequenti soprassalti dei ricordi che amplificano il dolore, A Sigle Man è una pellicola che pone particolare attenzione ai dettagli isolati spesso in primo piano, che si conferma necessario mezzo esplorativo del sentimento, davvero fondamentale per trasmettere una descrizione del protagonista non solo fisica, ma anche psicologica, a tutto tondo e per mettere così in evidenza portandola in assoluto primo piano, la sua incapacità di ritrovare “da solo” quell’armonia di coppia ormai perduta (struggente il flashback che ci rivela come la concezione dell’esistenza di Jim, il compagno morto prematuramente in un incidente d’auto, fosse diametralmente opposta da quella di Falconer, oppresso da un’indole un po’ crepuscolare e un tantino punitiva, una scena molto empatica e profonda che si trasforma anche in un “anticipato” presagio di morte che lascia già immaginare che al suo realizzarsi non potrà che determinare una sofferenza così spiazzante e inarrestabile: Se io morissi adesso, andrebbe bene – dichiara il giovane ragazzo al suo compagno, interrompendo per un momento la lettura di Colazione da Tiffany di Truman Capote. Non andrebbe bene per me, risponde infatti il professore, colto di sorpresa, distolto (e un po’ turbato) dalla sua lettura di un libro di Kafka).
Lo strazio per la conclusione inaspettata e prematura di una profonda relazione amorosa – quella “di una vita” che prescinde dalle tendenze sessuali e dalle ragioni che lo hanno motivato, è evidente e palpabile ed è proprio lo spettro di questo lutto, che ha aperto una ferita difficilmente rimarginabile, che attraversa l’intera vicenda, si insinua nelle pieghe di ogni incontro e situazione, diventa spesso insostenibile per lo stesso spettatore.
Lo avvertiamo nella ripetitività dei gesti del risveglio mattutino (Negli ultimi otto mesi, svegliarsi è stata una sofferenza. Il risveglio non mi è mai piaciuto. Non sono mai saltato giù dal letto per sorridere come faceva Jim), nella meticolosa vestizione per assumere il “ruolo di” e nel preparare poi le tracce del suo imminente, già deciso “congedo” dalla vita. Lo ritroviamo nell’incontro con la marchetta ispanica in simil James Dean, e nel confronto ravvicinato sulla spiaggia e a casa sua con Kenny. Lo avvertiamo riverberato nel sociale dell’epoca così ben delineato dei fatti di Cuba. E’ soprattutto espresso dalla società conflittuale in cui è costretto a vivere il professor Faconer, ed emerge con straordinaria evidenza proprio dal modo in cui svolge la sua “ultima” lezione universitaria, dalle parole che usa e come un po’ si “espone”..
Luigi Vagetti sintetizza così in un suo articolo quella particolare sensazione “dissolutoria” che si avverte profonda: John Fitzgerald Kennedy è il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America, ma l’omosessualità è ancora motivo di discriminazione; i familiari di Jim non hanno permesso che George partecipasse al funerale del compagno e persino l’amica Charlotte, a dispetto della sua apertura di vedute, reputava il rapporto tra Gorge e Jim un surrogato di un’autentica relazione d’amore (…) Ed è per questo che di fronte ad una platea tendenzialmente disinteressata, Gorge ricorre all’opera di Huxley come paradigma di un Mondo afflitto dal comune nemico della paura: la Guerra Fredda; la minaccia atomica; l’ostilità nei confronti dei comunisti; il timore persino per la musica rivoluzionaria di Elvis Prelsey. Un generalizzato sconcerto per il “diverso” che contribuisce a frustrare la quotidianità già afflitta dai problemi tipici delle società industrializzate contemporanee, quali l’invecchiamento e la solitudine.
L’utilizzo differenziato della fotografia fra il presente e i ricordi, è un altro straordinario strumento stilistico che rende vigorosa l’opera. Edmund Grrau, l’ottimo direttore della fotografia ha infatti orchestrato con sapienza i colori, spesso opachi quando descrivono “anime” in sofferenza, e vivacissimi invece per le scene con il vitale Jim e il curioso allievo Kenny del finale. Una fotografia estremamente emblematica dunque che riporta un po’ alla mene anche per il particolare uso delle “scelte cromatiche”, l’analogo lavoro fatto da Todd Haynes per Lontano dal paradiso con il quale il film di Ford condivide anche la presenza nel cast di una eccellente Julianne Moore,
Qualche eccesso di calligrafismo nella messa in scena, probabilmente qua e là si avverte (è a volte proprio la cura maniacale dei dettagli a denunciarlo), ed era forse inevitabile che accadesse (non dobbiamo dimenticare la provenienza “formativa” del regista che non poteva non essere influenzato dal preziosismo del “decor” e dei costumi) ma è un lavoro comunque svolto con sussiego e rispetto senza mai sbracare anche quando ricorre ad abiti e montature d’occhiali un po’ troppo “gl’amor” o agli arredi e alle ambientazioni forse non del tutto corrispondenti ai più francescani spazi descritti nel romanzo. Piccolissimi nei insomma che non inficiano minimamente il risultato: caratterizzano semmai soltanto con qualche involontaria “forzatura” l’epoca e il momento della storia, perché il debutto di Tom Ford con la macchina da presa, è davvero fra i più felici e stimolanti, e si può ben dire allora in conclusione che ha davvero realizzato un notevole film, perché A Single Man , grazie anche alla toccante, aderentissima, soffusa ma palpitante interpretazione di un Colin Firth mai così bravo come questa volta, ci fa percepire pienamente le profonde sofferenze dell’anima che si trasformano in un sincero grido di dolore universale.
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