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A Single Man

Regia di Tom Ford vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su A Single Man

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un giorno nella vita di… si potrebbe definire ma un giorno segnato dal peso di un inaccettabile evento luttuoso che mette l’uomo improvvisamente di fronte a una tragica realtà, alle prese col vuoto incolmabile lasciato dalla improvvisa dipartita del suo compagno, con i pensieri della morte ricorrenti e implacabili che si accavallano nella sua mente

Per parlare di questo film presentato con straordinario successo all’ultima mostra del cinema di Venezia (vincitore del Queer Lion Award e della Coppa Volpi per il miglior attore assegnata a uno straordinario, stratosferico Colin Firth), si deve necessariamente tornare al romanzo omonimo del 1964 - per certi versi autobiografico - di Christopher Isherwood che lo ha ispirato e dal quale non si può prescindere, indubbiamente una pietra miliare della letteratura (non solo gay) e certamente un’opera da ascrivere fra i capolavori assoluti del ‘900: un racconto struggente, intenso, delicato, lirico, tutto chiuso su se stesso, scritto in uno stile spoglio e asciutto e intriso di una passione che lo rende “indispensabile esperienza” di conoscenza.
In assoluto, uno dei romanzi più delicati e seducenti che parlino dell'esperienza omosessuale, insomma, che al di là dell’indiscutibile valore letterario, è anche una dichiarazione palese di una posizione e di una idea: “Mi pare che il reale indizio rivelatore dell’orientamento sessuale si trovi più nel sentimento che nelle spinte sessuali. Se sei davvero gay, sei in grado di innamorarti di un uomo, non solo di divertirti facendo sesso con lui” ebbe infatti a dichiarare un giorno Isherwood, un “pensiero” che è diventato celeberrimo, indiscutibilmente molto di più di una semplice dichiarazione programmatica di intenti, poiché trova conferma pratica proprio nella vita reale dello scrittore che dal 1953 e fino alla morte, avvenuta il 4 gennaio del 1986, ha consumato la sua personale, partecipata e prolungata storia sentimentale col suo compagno di vita, il pittore e ritrattista Don Bachardy, e non è certo di “una mosca bianca” che si parla, basterebbe solo guardarsi introno con più serenità d’animo per rilevare la veridicità normalizzante dei rapporti, più diffusa di quanto non si voglia ammettere anche in campo omosex, e ribaltare finalmente davvero uno stereotipo tutt’altro che univoco anche se va per la maggiore, che riguarda il poco veritiero luogo comune - potrebbe contribuire, se volete, anche l’esperienza privata del mio vissuto a smantellarlo - secondo cui i gay e le lesbiche non sarebbero in grado di vivere lunghe e solide storie d’amore… Possono… eccome se possono!!!… ed è straordinario quando accade, sono qui a testimoniarlo di persona: è soltanto più complicato e difficile, ci si deve confrontare ancora con troppe preclusioni e chiusure oltre che con le ottusità legislative ed ecclesiastiche, ma succede, non più e né meno che nel mondo etero (è possibile citare al riguardo, come particolarmente illuminante sulla circostanza, anche il bel documentario L’amore e basta, sempre proveniente da Venezia?).
La storia (da noi il romanzo è stato pubblicato nel 2003 da Guanda con il titolo Un uomo solo e adesso viene rieditato da Adelphi) è ambientata nel 1962, in piena guerra fredda, dunque, e racconta una giornata (non una “qualunque” però, come vedremo) nella vita di George Falconer, un professore universitario inglese trapiantato a Los Angeles, una giornata contrassegnata da banalissimi eventi quotidiani, come gli incontri con i vicini di casa, con l’amica Charley o con l’allievo Kenny (i punti di riferimento “ispirativi” proprio nelle modalità di “narrazione”, potrebbero in qualche modo trovare radici in Virginia Woolf e nel suo Mrs. Dalloway), quella vita insomma consueta, usuale e conforme, di un “uomo solo” e un po’ smarrito: “solo” perché è anziano… “solo” perché è straniero… .”solo perché è un diverso… “solo” soprattutto perché si è sbriciolato all’improvviso il suo equilibrio affettivo di coppia, poiché è proprio quello il giorno in cui ha appreso la notizia (che fa la differenza, apre voragini profonde) che il suo compagno di vita, Jim, è morto in un incidente: quella la giornata in cui si trova sbigottito e amorfo a considerare “che tutto ciò che è stato non potrà più essere…”. D’improvviso allora quel “solo”, quella parola, ma anche la sensazione disturbante che la rappresenta, acquisisce una valenza ancora più profonda e irreversibile (incidentalmente nel titolo inglese c'è un gioco molto più sottile di attinenze, proprio attraverso l’utilizzo del termine single, che come ben si sa, significa anche "celibe", il che fornisce il senso definitivo di che cosa sta davvero a rappresentare quella perdita irreparabile).
Un giorno nella vita di… si potrebbe concludere, ma una data segnata dal peso di un inaccettabile evento luttuoso che mette l’uomo improvvisamente di fronte a una tragica realtà difficile da metabolizzare, alle prese cioè col vuoto incolmabile lasciato da quella dipartita, con i pensieri della morte ricorrente e implacabile che si accavallano nella sua mente, ma anche, nonostante tutto, e sembrerebbe addirittura impossibile immaginarlo, con la voglia di continuare a vivere (o di “sopravvivere”, mi sembrerebbe di poter dedurre con maggiore oggettività).
L'autore segue passo per passo le ore ed i minuti contrassegnati dal dolore straziante della perdita, dallo smarrimento per quell’amputazione subita, da quel sentirsi un po’ dissociato, quasi perduto, tutte sensazioni virate al negativo che si mescolano e intersecano però con l'orgoglio di sé, con la sicurezza e il conforto di avere vicino amici fidati con i quali condividere la propria sofferenza che ti sorreggono, con la volontà solo in parte sopita di volersi rimettere in gioco per una rinascita, e persino con l’entusiasmo improvviso che esplode e si sovrappone, per una notte di nuova passione passata assieme a un giovane universitario incontrato per caso durante la giornata (e qui la vicenda intende traslare l'incontro di Isherwood con Don Bachardy, quello cioè che “cambierà davvero” la sua vita).
 
Immaginare questo materiale intriso di sofferenza e di palpitanti emozioni messo in mano per una riduzione cinematografica a un regista a tutti gli effetti “esordiente” e privo di qualunque esperienza nel settore, per di più proveniente dal fatuo mondo della moda come Tom Ford (nato nel Texas nel 1961 e diventato famoso nel mondo per aver clamorosamente rilanciato il marchio Gucci prima di fondarne uno proprio) mi aveva fortemente disorientato (se devo essere sincero, temevo davvero il peggio ed ero molto scettico su ciò che poteva uscirne, ritenendo possibile, nella migliore dell’ipotesi, una superficiale e laccata esercitazione di “stile”). Nemmeno le calorose acclamazioni veneziane, devo confessarlo, erano riuscite a rassicurarmi del tutto, poiché le divergenze che esistono fra il cinema inteso come arte più definitiva e concreta, e le creazioni comunque più effimere di uno stilista sia pure di valore, continuavano a sembrarmi abissali e incolmabili.
La recente visione (imprevista e gradita) della pellicola, nonostante la scarsa dimestichezza che ho dell’inglese (ma supportata fortunatamente dalla conoscenza del libro che ha sopperito egregiamente alla bisogna) mi ha invece fatto felicemente ricredere, perché mi sono trovato di fronte a un’opera non priva di difetti ovviamente, ma solidamente compatta, ben strutturata che “tiene” e coinvolge con la potenza bruciante di quella passione interrotta, intrisa di sofferenza, che trasmette empatia (per quanto mi riguarda, “fino alle lacrime” devo dire, visto che la partecipazione emotiva è stata totale per i riferimenti personali e le analogie che inevitabilmente mi hanno travolto).
E’ stato insomma un po’ come scoprire il germinare di un promettente “autore”: credo infatti, considerando che Ford il film oltre che dirigerlo e produrlo lo ha anche sceneggiato con consumato mestiere, che possa a buon diritto fregiarsi di questa definizione, e che possieda un talento anche cinematografico per riservarci ulteriori gradite sorprese proprio in questo campo, se è vero che il buondì si vede dal mattino… nonostante la “fronda” di qualche recensore maldisposto, che non “ha molto gradito” il trasporto appassionato dell’opera, immagino soffermandosi soprattutto ad analizzare il vestito più che ciò che contiene, visto che poi alla fine, parlandone, ci si è limitati ad evidenziare il disagio per “un senso di patinato scontato e prevedibile, che denota che si tratta dell’opera di uno stilista più che di un cineasta”. Non nascondo che può starci anche questo, ma c’è molto di più e di meglio intorno a quel concetto se si ha voglia di lasciarsi andare al sentimento.
 Il film ripercorre abbastanza fedelmente il romanzo, direi (almeno così mi è sembrato di percepire). Le diversificazioni significative non sono poi tante: oltre alla differente età del protagonista, qui ringiovanito a 52 anni, e a un lirismo di fondo molto più marcato che enfatizza un poco la materia e che credo (dovrò verificarlo nella versione italiana che penso avremo disponibile in sala nei primi mesi del prossimo anno grazie  a Vania Traxler Protti e alla sua meritoria casa di distribuzione) abbia sostituito una certa rabbia, presente invece in buna dose nella scrittura di Isherwood; le altre, analogamente importanti, riguardano soprattutto un aggiornamento ai temi della contemporaneità: in primo luogo la chiusura (personalmente per me, per come mi sento, per come vivo la mia privata esperienza, ancora più aderente e veritiera di quella del libro). Nel film infatti, il protagonista muore (è uno spoiler, e me ne scuso, ma era necessario questa volta, e non potevo proprio farne a meno). E’ singolare però considerare che è tutt’altro che un’idea “campata in aria” né tantomeno una trovata estetizzante, poiché, stando alle parole di Don Bachardy, anche Isherwood aveva ipotizzato possibile una conclusione di questo tipo, optando poi per una soluzione più vicina al suo “essere uomo” di quegli anni. Quindi nessuna manipolazione alla facile ricerca del fazzoletto che asciuga il pianto, semmai un aggiustamento “di pensiero” o una reinterpretazione postuma, persino inevitabile nell’andamento generale del film, e determinata dal fatto che George proprio non riesce ad immaginare un futuro senza Jim, (se questo c’è già nel libro, diventa ancora più chiaramente certo e prioritario nella pellicola) e quando per lo meno prova a pensarci magari vivendo un presente che non ha il futuro, è proprio il destino che farà il suo corso. L’altra variazione ha invece un carattere più polemicamente legato all’attualità: mentre nel libro infatti è George che si rifiuta di andare al funerale di Jim, nel film questa possibilità gli viene in pratica negata “perché la funzione è riservata alla sola famiglia” e lui, nonostante la lunga convivenza condivisa, non può aspirare, né tantomeno pretendere, di farne ufficialmente parte, un cambiamento tutt’altro che secondario che fornisce alla storia una non casuale venatura politica, evidenziando “dichiaratamente” la discriminazione ancora in atto di chi è gay e si vede negato dalle leggi e dalle convenzioni, la possibilità di rivendicare il diritto di poter stare vicino al proprio compagno nei momenti più drammatici, come appunto è quello della morte, o in ogni caso, in mancanza di un consenso della famiglia, di poter partecipare alla condivisone del dolore nell’espletamento dei riti successivi alla dipartita.
Ford sostiene comunque (almeno così ha dichiarato in conferenza stampa) che il film racconta soprattutto una storia d’amore, incentrata su una perdita irreparabile, quindi universalizzabile, che avrebbe potuto essere “analoga e conforme” anche se al posto di Jim ci fosse stata una donna. Niente da obiettare al riguardo: ogni perdita è a suo modo traumatica, e non c’è una scala di valori che ne assolutizzi una a discapito di altre, è nell’ordine naturale delle cose, sono condizioni perfettamente sovrapponibili senza distinzione di sesso o di tipologia di rapporto, per tutte le storie che hanno avuto un senso, ieri come oggi e come lo sarà domani. A mio avviso però mi sembra di avvertire che nel caso esplicito (era già accaduto con Brokebak Mountain) la storia rifletta più intimamente proprio la solitudine (anche sociale) di fronte all’evento, di un omosessuale in quanto tale, che non può cioè esprimersi pienamente nemmeno nell’esternazione della propria sofferenza: gli è impedito di farlo compiutamente persino adesso, nonostante che molte cose siano fortunatamente cambiate, proprio perchè si tenta di nuovo di far tornare drammaticamente indietro le lancette dell’orologio, ma negli anni sessanta, chi come me ha vissuto in diretta l’esperienza, sa che gli omosessuali non avevano davvero alcuna alternativa: erano veramente condannati all’invisibilità e persino alla negazione per poter sopravvivere, ingabbiati come si trovavano dentro una società retriva che non accettava né ammetteva questo tipo di possibilità, considerata offensiva e perversa (nel libro si parla esplicitamente di una campagna contro i “deviati sessuali”, e il vicino di casa aggredisce George chiamandolo “frocio”) e questo dà a tutto quello che ci viene raccontato ed esposto, un valore di assolutismo che è strettamente connesso con “quel” sentire le cose “quel” modo ancora più viscerale di percepire e vivere i rapporti, così come le gioie e i dolori.
Particolarmente curato nei dettagli, A Single Man gioca molte delle sue carte vincenti proprio sul piano estetico (bellissima la fotografia, con i colori che si modificano e cambiano in relazione al cangiare degli stati d’animo del protagonista, anche se a volte risulta un pò insistito e stancante l’effetto spesso ricorrente della sgranatura dell’immagine), ma si badi bene: senza essere estetizzante (che sarebbe stato un difetto imperdonabile ma possibilissimo, fortunatamente evitato con la classe di chi sa “controllare” la materia” e dimostra –nonostante l’inesperienza – una tecnica già invidiabile che compensa le marginali carenze strutturali con tanto cuore).
 Tornando alla storia e al suo evolversi, anche qui George (uno strepitoso Colin Firth – è doveroso ripeterlo - ancora una volta alle prese con la definizione inappuntabile e partecipata di un personaggio gay) apprende per telefono che il suo compagno Jim (Mattew Goode), col quale condivideva da ben 16 anni la sua vita, è morto in un incidente di macchina. Alcune scene in flashback ci fanno comprendere e rivivere la profondità del loro rapporto, iniziato con un incontro fortuito in un locale; ci fanno partecipare alla calda quotidianità non solo affettiva del loro vivere in due, mentre leggono insieme, o giocano con i cani, così da rendere ancor più drammatico e sfuggente il presente. Schiantato e inebetito dal dolore, George si appresta infatti a vivere adesso la sua giornata di vedovanza (passatemi il termine) scelta come l'ultima della sua vita, pressato da coloro che gli chiedono, nonostante tutto, di “continuare a ed essere il solito professor George di sempre”, quello cioè che conoscono meglio e al quale sono ormai abituati. Ma stavolta le sue azioni hanno fatalmente (e inevitabilmente) un amaro gusto di inutilità, o anche di meccanica ripetitività: la lezione all’università, persino l’incontro con un avvenente gigolò spagnolo (oggi lo chiameremmo escort) che lascia però andar via, proprio perché gli manca la voglia e l‘energia “di consumare” l’atto, la cena dall’amica Charley (una appropriata Julianne Moore) che gli rinfaccia come sarebbe stata bella la loro vita insieme se lui non fosse stato dell’altra parrocchia, e gli incontri con Kenny (Nicholas Hoult), un giovane allievo in crisi di identità, attirato, anche sessualmente, da lui. E sarà proprio grazie a Kenny che George comprenderà davvero che ormai lui non sente più il bisogno di vivere poiché ha ormai “compreso il significato e la bellezza dell’esistenza”, così profondamente, che al punto in cui è arrivato, per lui adesso la morte – la sua morte – non rappresenta altro che il raggiungimento della serenità.
Non ci sono particolari concessioni al voyeurismo fine a se stesso, ma Ford, oltre a soffermarsi con amorevole e sinuosa indulgenza, sull’inconsueta avvenenza di Kenny (una delle sequenze di grandissima commozione che ci regala il film è la scena nella quale Kenny e George nuotano assieme) o ad immortalare i teneri momenti di George e Jim che si baciano con trasporto, non si tira indietro nemmeno di fronte alla necessità di esaltare la bellezza maschile tout court, accarezzando con la macchina da presa i torsi nudi madidi di sudore dei ragazzi che giocano fra loro.
Colon Firth, presente praticamente in ogni inquadratura, è davvero magnifico, e potremo ripeterlo all’infinito per quanto è monumentale la sua resa, ma tutto il cast è meritevole di menzione, poiché risponde come meglio non sarebbe stato possibile, alle molteplici sollecitazioni del neo-regista per ricordare (e raccontare) insieme, senza spingere troppo il pedale del ricatto emotivo, che si può persino, più che morire d’amore, “morire per amore”.

Sulla trama

Nel vederlo senza sottotitoli, la mia scarsa conoscenza dell'inglese, mi aveva fatto immaginare che "quel tirllo telefonico (che suscita il ricordo) fosse quello della comunicazione della morte, e che tutto "si riferisse" a quel giorno nel film. Non è cosi ma è un particolare ininfluente che non meritaq nemmeno una correzione in ciò che già ho espresso a suo tempo. Rivederlo, ha incrementato notevolmente il valore attribuibile all'opera: difficilmente il senso di un romanzo così "particolare" è stato rispettato e "amplificato" sullo schermo, pur con le necessarie (pertinentissime) modificazioni di un adattamento per lo schermo. Ne do un contributo, riportando propri l'incipit del libro: Svegiarsi è cominciare a dire sono e ora. Pou ciò che si è svegliato resta sdraiato per un momenti a osservare il soffitto e dentro se stesso finchè non abbia riconosciuto Io, e da questo dedotto Io sini, Io sono ora. Qui viene dopo ed è, almeno in negativo, rassicurante; poichè stamane è qui che si aspettava di trovarsi; cime dire a casa propria.
Ma ora non è semplicemente ora. Ora  è anche un freddo promemoria; un'intera giornata più di ieri, un anno di più dell'anno scorso. Ogni ora è etichettato con la propria data, rende obsoleti tuutti gli ora passati, finchè - presto o tardi, forse - no, non forse, certamente: la Cosa accadrà.
La paura contorce il nervo vago. Un malsano ritrarsi da ciò che, in qualche luogo là fuori, attende dritto davanti.
Ma la corteccia, questo severo controllore, ha preso intanto il suo posto ai comandi e li ha verificati, uno per uno; le gambe si stirano, la parte inferiore della schiena si inarca, le dita si tendono e si flettono. E adesso, all'intero sistgema di intercomunicazioni viene inviato il primo ordine del giorno: IN PIEDI.
Obbediente ilc orpo si alza dal letto - trasalendo per le fitte ai pollici artritici e al ginocchio sinistro, un pò nauseato per lo spasimo al piloro - e si trascina in bagno, dove svuota la vescica e si pesa; ancora un pelo sopra le 150 libbre, malgrado tutto quello sgobbare in palestra! Poi davanti allo specchio.
Ciò che vede, più che un volto è l'espressione di una difficoltà. Ecco ciò che si è fatto, ecco il pasticcio in cui è riuscito in qualche modo a cacciarsi nel corso dei suoi 58 anni. (...) Fissandosi sempre di più nello specchio, vede parecchi volti all'intenro del suo - il volto del bambino, del ragazzo, del giovanotto. dell'in-pò-meno giovanotto- ancora tutti presenti, conservati come fossili sotto strati sovrapposti, e come fossili, morti. Il loro messaggio a questa viva creatura morente è: Guardaci - siamo morti - che c'è da aver paura? (...) Fossa e fissa. Le labbra si socchiudono. Prende a respirare attraverso la bocca. Finchè la corteccia gli ordina con impazienza di lavarsi, di radersi, di pettinarsi. La nudità deve essere coperta. Deve vestirsi perchè sta per uscire, andare nel mondo degli altri; e questi altri devono essere in grado di identificarlo. Bisogna che la sua condotta sia accettabile per loro.
Docilmente, si lava, si rade, si pettina; perchè accetta le proprie responsabilità verso gli altri. (...) Sa il proprio nome. Si chiama George.
Intanto si è vestito è diventato egli, è diventato  più o meno George. (...) Coloro che gli telefonassero a quell'ora del mattino rimarrebbero sconcertati, forse persino intimoriti, se potessero rendersi conto di che cos'è questa cosa umana per tre quarti con cui stanno parlando. Ma non possono mai, naturalmente: la sua imitazione della voce del loro George è perfetta. (...) Attraversa la stanza di fronte, che chiama il proprio studio, r scende la scala. I gomiti toccano i due corrimano e bisogna piegare la testa - anche se, cone George, si è alti  solo un metro e settanta. E' una casa piccola, concepita stretta . Spesso egli si sente protetto da questa piccolezza; non c'è  abbastanza spazio per sentirsi soli::
Nondimeno...
Immaginate due persone che, in quello spazio ridotto, vivano insieme  giorno per giorno, cucinino gomito a gomito suglis tessi fornelletti, si comprimano sui gradini angusti. Si radano di fronte allos tesso minuscolo spechcio da bagno, continuino a toccarsi, a urtarsi, a cozzare  l'uno contro il corpo dell'altro , per sbaglio o per apposta, sensualmente, aggressivamente, maldestramente, impazientemente, in collera o in amore - immaginate che profonde ma invisibili tracce devono lasciaris dietro  ovunque! L'ingresso delal cucina è troppo stretti. Due persone che han fretta, con i piatti in mano, sono destinate a scontrarvisi di continuo. Ed èq ui che, quasi tutte le mattine, giunto in fondo alla scala, George prova la sensazione di trovarsi all'improvviso su un limite scosceso, frastagliato, brutalmente interrotto - come se il sentiero fosse scomparso sotto una frana. E' qui che si arresta di colpo, turbato dalla novità e, come la prima volta, sa che Jim è morto. E' morto.
Rimane calmo, silenzioso, o articola al più un rapido grugnito animale, come quando aspetta che passi lo spasimo. Poi va in cucina. Questa mattina gli spasimi sono troppo dolorosi per ptoer essere trattati sentimentalmente.
(traduziine di Dario Villa)

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