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La vie nouvelle

Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film

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La recensione su La vie nouvelle

di ed wood
8 stelle

“La vie nouvelle” è un’opera cinematografica che si avvale di stilemi mutuati da altre forme d’arte, in particolare le arti performative, la body art in senso lato, tutto quello insomma che si basa sulla gestualità del corpo (una sorta di astrazione del linguaggio teatrale), ma anche le installazioni di video-arte e in minima parte il videoclip. Senza dimenticare la cara e vecchia pittura. La cosa positiva però è che Grandrieux non sfrutta biecamente il cinema come inerte dispositivo che si presti ad “ospitare” tutte queste forme d’espressione non cinematografiche, ma piega invece queste ultime alle necessità espressive di quello che è lo specifico filmico: la dimensione dell’immagine in movimento, la manipolazione della materia spazio-temporale.

 

Che fosse destinata ad essere questa la “vie nouvelle” del cinema nel Terzo Millennio non era dato sapersi nell’ormai lontano 2002, anno di realizzazione di questo film. Certamente, le ibridazioni fra "cinema di finzione" ed altro (dagli estremi del documentario e della video-arte, passando per una varietà di linguaggi che include anche il web e la televisione) sono oggi oggetto di studio da parte di svariati cineasti. Grandrieux non realizza certo un capolavoro, che valga da opera-manifesto di questo nuovo cinema, in quanto “La vie nouvelle” è un film altalenante, dove immagini di grande impatto espressivo si alternano a fasi di stanca, momenti superflui dove il regista pare un po’ adagiarsi stancamente sulla sua peculiare visione del mondo.

 

 

Tuttavia, complessivamente, il film riesce nell’intento di rappresentare quello che è il sentimento, l’atmosfera, la tonalità dominante di quell’inferno morale, mentale, fisiologico e sociale che è la vita nella sua essenza più profonda ed inconfessabile. L’inferno è quello, economico e in fondo politico, di un mondo dove paiono possibili solo tre categorie di persone: papponi, puttane, puttanieri. Sesso e denaro come unici punti di riferimento. L’inferno è, in pratica, quello di un godimento che non si riesce ad ottenere, di un edonismo che non si può raggiungere, di un’estasi solamente virtuale, di un amplesso che è destinato sempre a degenerare in violenza. Il crocefisso indossato dalle lap dancer non è quindi una blasfemia gratuita: come in Pasolini e Scorsese, l’iconografia cristiana fornisce invece il supporto teorico e metaforico per una discesa verso una Passione puramente laica e carnale.

 

Tanti sono gli spunti estetici e poetici di questo film. La discendenza dall’arte performativa, che rimanda, in qualche modo, all’esordio del greco Lanthimos con il poco riuscito ma seminale “Kinetta” di tre anni successivo, spalanca il campo ad una rappresentazione sfaccettata del corpo-a-corpo, del contatto fra esseri animali (umani, ma anche bestie, oppure umani degradati al rango di bestie): questo film abbonda di amplessi violenti, abbracci sensuali, volti che annusano corpi, bocche che sussurrano nelle orecchie, mani che accarezzano volti o recidono capelli con le forbici, uomini che sollevano corpi inerti di donne nude, per culminare con l’horror quasi romeriano di una carneficina cannibale in bianco-e-nero e di un uomo sbranato da quattro cani. Domina una visione materialista e disperata della condizione umana, dove il contatto fisico fra gli individui è irrimediabilmente destinato alla distruzione reciproca, allo smembramento del corpo. Ed è proprio quest’ultimo concetto che Grandrieux persegue con successo, deformando espressionisticamente la figura umana, fino a farne una torva, mostruosa, cupa, indistinta macchia.

 

 

Tutto questo avviene senza particolari trucchi, anche perché la tecnologia digitale era all’epoca ancora in fase sperimentale. Ricorrono sfocature, chiaroscuri, camera a mano e inquadrature ravvicinate, oltre alla ripresa in negativo (durante la sequenza cannibale) che è una tecnica vecchia quanto il cinema; ma soprattutto, è l’anamorfosi dei volti, che parrebbe generata da una sorta di manipolazione del tempo di esposizione della cinepresa, con cui si viene a creare una specie di scia luminosa ad ogni movimento, a costituire la cifra stilistica prediletta dal regista. E’ la rappresentazione estetica dello strazio dei personaggi, della loro immane sofferenza, del loro desiderio frustrato di uscire dall’immagine filmica, dal cinema stesso. E invece rimangono intrappolati in quell’inferno irredimibile, in quella dittatura delle immagini che in fondo è il cinema.

 

Un’altra trovata suggestiva che, come l’anamorfosi, il brano cantato dalla prostituta e lo sdoppiamento della figura femminile, pare quasi un retaggio lynchiano, è quella della folla silenziosa che apre il film e si rivede a metà opera: volti anziani, attoniti, sconvolti, che guardano fuori dall’inquadratura la prima volta e poi in faccia lo spettatore. Come a stabilire una sorta di dialogo meta-filmico con chi sta assistendo a tale orrore, come a fungere da controcampo morale alla sordida vicenda oggetto del film. Oppure, paiono quasi prossime vittime di un campo di concentramento, imminente carne da macello in un sistema-inferno fondato sulla disposizione forzata del corpo altrui. La rappresentazione livida di una natura gelida, invernale, sempre opprimente anche quando ripresa in campo lungo, unita allo squallore dei capannoni di periferia, rincara la dose e suggerisce che l’inferno è anche naturale ed urbanistico.

 

 

Fra le parti meno riuscite, ora gratuite ora puramente funzionali, ci sono la figura del pervertito che picchia la prostituta e poi canticchia una canzone, i tempi morti in cui due balordi brindano a vodka, mentre il balletto fra il pappone e la lap dancer richiama un po’ il videoclip e ha forse l’aria di un esercizio di stile (per quanto suggestivo). In questo film dove i rarissimi dialoghi potrebbero anche non esserci, il sonoro è curato maniacalmente (ancora l’ascendenza lynchiana!) e culminante con quell’insieme di urla ammassate l’una sull’altra, la violenza è onnipresente ma mai estetizzata: c’è quasi sempre un corpo ad ingombrare la visuale dello spettatore, ad inibire la composizione del quadro.

 

In definitiva, “La vie nouvelle” è un’opera tanto teorica quanto sensoriale, tanto astratta quanto brutale. Un aggiornamento del cinema espressionista, un grido di dolore per un mondo impazzito, un atto di violenza nei confronti dell’immagine per rappresentare degnamente la bestialità recondita nel genere umano, una sconsolata e trasfigurata allegoria del nostro tempo. 

 

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