Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film
La fine, e, al contempo, l’inizio del Cinema.
L’immagine deflagra e brucia, lentamente, sottopelle, con brutale violenza e con migliaia di misteriose facce e volti che “vedono” ma forse non accettano, proseguono benché sia già tutto chiaro, forse non proseguono più perché definitivamente immobilizzati. La brutale violenza non è il sangue versato, non è la lacerazione della carne: è la silenziosa e mesta (e per questo assordante) sconfitta dell’uomo, sconfitta che non si sente e non si vede, ma si vive come costante di ogni viaggio. È un urlo a cui non viene dato il diritto di essere sentito, che viene ammutolito, come un’impronta umana deforme su un dipinto di Bacon, o tra gli anfratti di Guernica di Picasso. Si può prolungare quanto si vuole lo strazio rumoroso e insostenibile, insopportabile, ma è l’istantanea (prolungata all’infinito) di un’immagine (forse neanche di una fotografia) a dare (non)senso al dolore, a inquadrarlo definitivamente, a scorgere oltre la sofferenza ciò che di umano è rimasto. L’inferno brucia, sì, ma non di un rumore assordante: vive e si rigenera dalle ceneri della disillusione, dei momenti in cui la verità si fa palese, a mostrare la bassezza della condizione umana, e tutto va definitivamente a rotoli, ogni àncora di salvezza, ogni ultimo devastato barlume di possibilità. Attimi di caduta libera dove la vita non passa davanti agli occhi perché è stata sempre uguale, sempre una stessa condizione e una stessa situazione tirata fino allo stremo dell’assurdo, forse con qualche parentesi di sogno che in realtà è terribile perché nasconde tra le sue fila ciò che di più marcio e mefistofelico ci si può immaginare. Il rumore, il diritto al rumore, sarebbe già una scappatoia, un attimo di assurda liberazione vissuta nel finale dal protagonista.
Seymour, l’americano giunto in un bordello dell’Europa dell’Est (di un non-luogo in genere), che si innamora (?) o rimane semplicemente ossessionato da Melania (nera, oscura?), che forse è la più bella e affascinante delle “ragazze” del “proprietario” Boyan, è l’uomo e il corpo che ancora non si è riuscito a guardare in faccia, e che rimane ammaliato dall’Immagine. L’Immagine che, più che irretire, sconvolge e impaurisce gli “spettatori” (che altro non sono che anime dannate, come tutti), perché forse loro hanno già capito, o osservano per capire (che non c’è niente da capire?), fermi lì senza neanche consolarsi a vicenda, tutti ipnotizzati da una luce soffusa e bruciante che non osiamo nemmeno immaginare (ma che forse stiamo proprio vivendo, forse è qui e non riusciamo a vederla). Pronto a tradire qualsiasi elemento che lo leghi alla realtà, Seymour decide di farsi trascinare dall’immaginazione fino alle estreme conseguenze, laddove fatichiamo a credere noi stessi spettatori che Melania sia ancora lì, effettivamente, a guardarlo, e non sia solo un’apparizione. Niente è rimasto probabilmente di lei dopo quell’incontro veloce in albergo, di lei è solo rimasta l’idea e la forma, che manco a dirlo nel capolavoro di Philippe Grandrieux, La vie nouvelle, sono costanti contrari che si scontrano e generano profondissime emozioni antinomiche e paradossali.
La vie nouvelle è esplosivo, agghiacciante, superbo, diabolico, praticamente un perfido gioco con la vita e la morte. È un marchingegno che non cerca l’empatia con chi è osservato, ma con chi osserva. Non siamo dalla parte di Seymour, benché sia spesso lui in scena. O almeno, pensiamo di esserlo, ma è solo una delle altre bugie. Noi siamo (e ce ne rendiamo conto lentamente) dalla parte di Boyan, dalla parte del burattinaio (o, almeno, abbiamo i suoi occhi), colui che fa vibrare la scena con le sue splendide creature, tutte le sue “ragazze speciali” che sono solo le anime che dà in pasto ad altre anime forse convinte di essere vive. Il sesso diventa materia drammatica, distruttiva, mortifera. Uno sfruttamento reciproco, un aggrapparsi vuoto e privo di senso. La vie nouvelle d’altronde è un film umorale attento ai corpi e ai sensi, e privando di tessuto narrativo propriamente detto tutte le sue sequenze, sfilacciandole e sfibrandole di quel fil rouge narrativo inessenziale, alla fine è proprio, spudoratamente e sfacciatamente, la macchina di morte che impersona Boyan, il generatore di sogni infranti che forse è il Cinema. Lo schermo bruciante, una luce assordante. L’inferno non è lontano, è qui. Cambia posto, durante le ultime immagini della Vie nouvelle, prima è nei sotterranei dove Seymour è accompagnato da Boyan. Poi è fuori, nella foresta e nella landa sotto un sole freddissimo e lontano, che nemmeno brucia più. Ma prima ancora è da noi, dalla nostra parte, al di qua dello schermo, dove guardiamo sbigottiti che macchina perfida e disumana sia il Cinema.
Un film apocalittico e terribile, ai limiti della repellenza, però allo stesso tempo morbosamente affascinante. Benché si riveli a poco a poco chiaro che il film si muove con gli occhi e le mani di Boyan, che manovra e ricrea il suo spettacolo sfondando e spellando i corpi (radendoli, rasandoli), noi ci facciamo ammaliare come Seymour, almeno finché non ci avvediamo di tutto, e La vie nouvelle stessa si rigenera, in fatto di fascino e splendore, dalle ceneri della (nostra) disperazione, volendo del nostro terrore. Un film senza speranza, parassitario, un’esperienza immersiva che merita certo il grande schermo e il silenzio assoluto, il buio, per affogare. La vie nouvelle, alternando i punti di vista, mostrandoci chi guarda, chi è guardato e chi manovra tutto, ha il dono dell’ubiquità.
Meritano certo attenta osservazione alcune sequenze, anche se il film è talmente sconcertante che servono numerosissime visioni per farlo proprio e assoggettarlo a riflessioni più concrete e magari definitive. Come con la sequenza della danza, in cui Boyan sembra mostrare finalmente il suo essere un burattinaio, che scuote e muove come preferisce i pezzi di Melania che diventa pura forma, significante bidimensionale dello schermo cinematografico. Melania rimane immagine e immaginazione, il resto del film con le sue oscure verità viene fuori avvolgendoci. Forse riusciamo a “sentire” al tatto Melania solo alla fine, quando finiamo dentro l’inferno. Lì la sua vera natura è cannibalica, selvaggia. Lì veniamo davvero morsi e spolpati, come Roscoe con i cani. Grandrieux allo stesso modo di Boyan smonta l’immagine e la trasforma in pura forma, secondo un percorso che però tutto il film porta avanti, in contrasto sempre netto con le immagini più violente ed erotiche.
Il viaggio e le apparizioni di Seymour (è un percorso che ha più di un elemento in comune con Lynch) sono i momenti più onirici. Il canto di Melania, che non a caso pronuncia fra una parola e un’altra “I swallow you up”;
Roscoe, che alla sua prima apparizione è il primo a volteggiare, a mostrare come anche la realtà sia gestita da fila imperscrutabili e malsane;
i trip lisergici dentro il locale, dove Seymour è più disperso che eccitato dai corpi ballerini delle ragazze stripper;
la scena ripresa con la macchina termica, che rivela il fondamento sostanziale di una realtà umana bassa e disperante;
per finire, poi, con le immagini con cui La vie nouvelle inizia, proprio quelle degli spettatori che osservano la luce, il fuoco. Un rituale, la nostra immaginazione (la nostra anima) è la vittima sacrificale per un mostro a quattro teste chiamato Settima Arte. Gli diamo in pasto tutte le nostre migliori alternative. E la cosa più bella è che amiamo farlo. Dunque l’inferno ci avvolge, è qui, e percependo da fuori la nostra sofferenza possiamo scorgerne i perfetti meccanismi.
La fine, e, al contempo, l’inizio del Cinema.
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