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La vie nouvelle

Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film

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La recensione su La vie nouvelle

di joseba
8 stelle

Secondo lungometraggio del cineasta sperimentale Philippe Grandrieux, La vie nouvelle, ispirato in parte ad esperienze vissute e in parte alla Vita Nova di Dante, è un film ancora più ricco ed estremo del precedente Sombre (1998), tenebrosa spettrografia dell'istinto omicida di un assassino seriale itinerante. Qui Grandrieux sembra invertire l'approccio estetico adottato nella prima pellicola: anziché mostrare il libero fluire dell'energia erotico-mortale che attraversa i sensi di un protagonista già totalmente determinato dalla sua ossessione, La vie nouvelle mette in scena la regressione della dimensione desiderante di un giovane militare americano di stanza nei Balcani. La licenza di alcuni giorni, impiegata per una trasferta di piacere-lavoro a Sofia insieme a Roscoe, si trasforma per Seymour in una discesa agli inferi tanto irresistibile quanto degradante.

Si tratta innanzitutto di una riduzione spaziale: se l'arrivo sul luogo della compravendita di carne umana si colloca in un orizzonte aperto e aurorale nel quale le sagome dei due uomini occidentali si muovono liberamente, il prosieguo del film toglierà concretamente spazio e libertà di movimento a Roscoe e a Seymour, condannando il primo a una passività innaffiata di alcool e dannando il secondo a una passione divorante per una creatura letteralmente irraggiungibile. Alla mercé di Boyan, grande burattinaio dal carisma diabolico, Melania è difatti una donna soggiogata mentalmente e plasmata fisicamente dal suo protettore-possessore: un corpo che non (si) appartiene.

L'ossessione per la giovane e inafferrabile prostituta spinge Seymour a compiere ogni azione possibile per averla: prima se la accaparra per un incontro singolo, poi è disposto a pagare profumatamente per poterla avere con sé una notte intera e infine, in preda ad un sentimento sempre più travolgente, vorrebbe addirittura comprarla. Ogni tappa di questa escalation è accompagnata dal progressivo "rinchiudimento" della dimensione desiderante in spazi via via più ridotti e oscuri, fino allo sprofondamento in un vero e proprio luogo negativo in cui erotismo e voracità si mostrano nel loro volto coalescente e animalesco. Alle origini del desiderio.

Ancora più radicale e gutturale che in Sombre, la cinepresa si carica di pura forza impulsiva e impressiva: attratto dal magnetismo dei corpi e galvanizzato dalla plasticità degli spazi, Grandrieux sventra la coerenza della narrazione e della rappresentazione, perturbando la prima con immagini più o meno irrelate (uno schieramento di uomini e donne con lo sguardo fisso verso il fuori campo; cani in gabbia che si accoppiano freneticamente) e rivoltando come un guanto la seconda, in un'abissale e rovinosa esplorazione del desiderio allo stato nascente. Un film ostico e prezioso che regala, a chi è disposto a misurarsi con forme espressive improntate all'interrogazione, squarci visionari di inaudita potenza e immagini segnate dalle spiazzanti tortuosità dello psichismo. Immagini mentali che (si) fanno corpo.

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