Regia di Sophie Barthes vedi scheda film
Paul Giamatti è a pezzi, sì proprio lui, l’attore. Qualcosa non va. No, non sono i quaranta film in cui è apparso in veste di grande caratterista o protagonista, è afflitto da problemi esistenziali. Anche lui, direte: è un magnifico interprete, gode di un successo meritatissimo, piace alle platee. La malinconia non fa sconti a nessuno: la malattia di Paul è una malattia dell’anima. Detta così, sembra che uno strizzacervelli o qualche pillola bastino a placare l’esigenza di guarirla in due settimane, perché Paul sta per portare a teatro Zio Vanja di Cechov e per quella data deve stare bene. Niente da fare, Paul è in crisi:
“Mio dio amico”, confessa al regista, portandosi una mano alla bocca dello stomaco, “ho 47 anni! Se arrivo ai sessanta, dovrò vivere ancora per tredici anni. Come posso farcela? Come faccio a resistere?”.
Il regista e il resto del cast sono allibiti.
“Non capite? Io... io non avrò niente da fare in quegli anni. Ho... ho questa pulsazione allo stomaco. Ho un dolore al petto, come se qualcuno mi avesse messo il cuore in una morsa e lo stesse stritolando!”.
“Ascolta, Paul”, lo conforta Michael Tucker, il regista”, “lo so che... che ci hai messo l’anima in Vanja… ma posso tirartene fuori in un attimo.” E aggiunge: “E a proposito di anime... dovresti dare un’occhiata al numero di questa settimana del New Yorker. C’è la risposta ai tuoi incubi.”.
No, Michael non doveva pronunciare la parola anima: grandi pensatori hanno sbattuto la testa contro quella parola. Grandi registi hanno cercato di catturarne l’essenza. Ma l’anima non è una cosa concreta (anche se qualche regista di facile successo ha cercato di misurarne il peso), l’anima, per dirla con Sir John Falstaff, “è una parola… è qualcosa che vola”. E se, invece, avesse ragione Cartesio (citato nell’introduzione al film), “L’anima risiede principalmente in una piccola ghiandola”, allora il New Yorker magazine che Paul ha tra le mani può ragionevolmente lambiccare:
“Liberarsi di un peso facilmente. I newyorchesi sono stanchi di portarsi dietro le loro anime. Mini ibernazione, ibernazione per animali, ibernazione privata, ibernazione fai-da-te... Ibernazione per l’anima. La tua anima ti opprime? Congelala”
Paul fissa un appuntamento con la “Soul Storage”, sede a Roosevelt Island. Ambiente asettico, segretarie affascinanti lo accolgono. C’è un questionario da riempire: “Ti senti solo? Vivi nel passato? Perdi facilmente la calma?”, subito dopo Paul è nell’ufficio del Dott. Flintstein (David Strathairn).
Iniziato come una commedia, il film vira verso il grottesco alla Gogol, con la differenza che qui sono in commercio le anime dei vivi. Paul firma il contratto di congelamento della sua anima per due settimane. Deve liberarsi dal peso dell’angoscia.
Macchinari simili alla Tac estraggono l’anima sofferente che viene depositata in un contenitore. L’anima di Paul è sorprendente, un’anima minuta, ha la forma di un miserabile cece. Eppure è proprio colpa di questa anima-cece se Paul si sente ‘incastrato’ da Zio Vanja.
Niente paura, dice Flintstein, quando hai un tumore, te ne sbarazzi. Un’anima contorta è come un tumore, è meglio sbarazzarsene. Poi filosofeggia: “La felicità non consiste nel far credere alle persone attorno a lei che sia felice. Tutti vogliono essere felici. Mi creda, una volta che si sarà sbarazzato dell’anima tutto acquisterà molto più senso. Tutto diverrà... beh, funzionale e... significativo.”
Le cose non vanno come pronosticato: Paul è cambiato, sua moglie Claire (Emily Watson) sente che il marito sembra un’altra persona, ha la pelle come quella di una lucertola, non è più lui; durante le prove lo zio Vanja ha accensioni erotiche che non collimano con il testo di Cechov: a Paul la “Soul Storage” ha affittato un’anima provvisoria di un ignoto poeta russo, perché non poteva restare senza un’anima che lo sorreggesse durante l’assenza della sua, e l’anima russa, lo sappiamo, è passionale.
Come nei drammi faustiani, Paul rivuole l’anima che giace nelle teche dell’azienda di Flintstein, sarà pure un’anima-cece ma è quella originale; Paul rivuole le sue angosce perché l’anima del poeta russo contiene visioni ancora più angoscianti di lunghi corridoi della miseria, visioni di bambini affamati, la silhouette di una donna in pericolo sull’abisso. Come in ogni commercio immorale, dietro la “Soul Storage” agisce la mafia russa, fornitrice di anime prelevate dietro compenso a persone disagiate, che invia in America tramite corrieri che hanno già venduto la propria anima o come Nina (Dina Korzun) che ha rubato quella di Paul per consegnarla a Sveta (Katherine Winnick), la svampita ballerina, moglie del capo mafia.
Paul Giamatti parte verso San Pietroburgo per recuperare l’anima perduta.
Cold Souls – non tragga in inganno il plot quasi fantascientifico – è un film umanistico tra i più sofferti che mi sia capitato di vedere l’anno scorso. Del resto, se raccontassi il plot di Alphaville di Godard, ispirato alle mirabolanti avventure di Lemmy Caution scritte da Peter Cheney, resterebbe in ombra la tensione antiscientista che fa del film un capolavoro sullo stato dell’anima nell’era tecnologica. Il plot di Cold Souls è la gruccia cui Sophie Barthes appende gli abiti di un’allegoria tesa alla dimostrazione della mercificazione dei corpi e delle anime in una società in cui l’insensato e l’impensato hanno sostituito il reale, diventato deserto (vedi Slavoj Zizek che cita Matrix:
“BENVENUTO NEL DESERTO DEL REALE”).
A buona ragione assimilato da qualche critico a Synecdoche of New York di Charlie Kaufman, e irragionevolmente da altri a un rip off di Ethernal Sunshine di Michel Gondry, Cold Souls ha del primo la riflessione sul ‘teatro e il suo doppio’, dal secondo (sopravvalutassimo congegno à faire pleurer), lo distanzia l’eleganza (non solo formale) e una regia che tira fuori dal gigione Giamatti la sua più grande prova attoriale. Senza dimenticare gli altri, su tutti il magnifico David Strathairn, ‘rubato’ ai sofisticati quanto appartati set di John Sayles.
A Cold Souls, presentato al Sundance 2009, è stato ingiustamente scippato dalla giuria il premio che è andato al più facile e digeribile Push: Based on the Novel by Sapphire (in Italia, Precious).
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