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La prima cosa bella

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su La prima cosa bella

di LAMPUR
4 stelle

 

 

Ed io, sciocco, a pensare che il mega film di fantascienza dell’anno fosse Avatar… ed invece, a superare tutti i limiti della credibilità e dell’usurata consuetudine, arriva proprio il nostro Virzì, con la sua saga familiare che, assieme a quella di Baarìa, ci consegna un altro quadretto di vita condita d’improbabilità, architettate al solo scopo del sorriso o della lacrima (facili entrambi). E premetto che Livorno per me significa soprattutto Corsica, lì imbarchiamo spesso i nostri sogni verso Bastìa. Ma se rade possono essere le occasioni, in tali frenetiche circostanze, per uno sguardo alla città, mi aspettavo una panoramica diversa, invece, da un livornese doc, che prescindesse da stereotipi consunti legati, magari, a soste prolungate dinanzi alla vecchia sede del P.C.I.. Dall’inconcludente impalpabilità salvo Mastandrea (e non oso immaginare quale ulteriore mattonata sarebbe uscita fuori confermando come, protagonista, Kim Rossi Stuart, come da programma originale) e praticamente null’altro. In parecchi mi dicono che devo aprire i miei risicati orizzonti mentali quando vedo un qualsiasi film, lasciare fuori pregiudizi e diffidenze, ma ormai posso farci poco o nulla. Io le mie porticine le tengo belle aperte ma mi insospettisco subito, e già, ad esempio, quando la Ramazzotti sale sul palco per partecipare  alla Miss Mamma di una Livorno estiva anni ’70 (in una scena celebrata da molta utenza di FilmTv), mi infastidisce  come altre tre candidate, a richiesta, rispondano da brave bambine con nome e cognome e lei sia l’unica a sciorinare un campionario d’impappinamento elementare. Può capitare, certo. Mi dicono. Ognuno preso dall’emozione reagisce in maniera diversa. D’accordo. Ma può capitare anche alle altre, o perlomeno apparecchiami anche solo un abbozzo di differente reazione anche per le altre. Mi infastidisce l’accentuata sciatteria cialtronesca degli organizzatori, la gelosia beduina del marito che tratta da cani la moglie appena premiata in maniera cosi manifestamente rimarcata, da far storcere subito il naso, e mi infastidisce il contorno del piccolo Bruno con disegnato addosso l’immusonimento  che lo caratterizzerà per la quasi totalità del film e l’ancor più piccina Valeria, embrione dell’istericuccia Pandolfi che diverrà. E siamo solo all’inizio.  In realtà mi soffermo su questo, apparentemente insignificante episodio, per dar rilievo alla peculiarità dello stesso metro di “sottolineatura a senso unico”, ovvero il “ti faccio vedere quello che mi pare e non quello che è”, che troveremo per tutto il film: dallo zucchero filato tolto alla mamma e dato al vecchietto che passa, lo prende e se lo mangia sorridendo, ai figli rapiti proprio sulla scena de La Moglie del prete, dove la Ramazzotti comparseggia impacciata inciampando sul binario della cinepresa, alla scena madre sotto la pioggia per il ricongiungimento coi medesimi (vagamente Ponti di Madison devo dire..) fino alla sceneggiata napoletana con la sorella al funerale del marito. Vien da pensare che se il motorino di Bruno fosse partito subito, al primo incontro con la sorella, non ci sarebbe stato proprio il film. Ma perché toglierci il gusto dell’ennesima pantomima, con calcione al motorino fedifrago?

L’entrata finale del figlio “procurato” all’avvocato che l’accolse benevolente, è un ulteriore segnale, se ancora da percepire, che non ci si dovrà stupire più di nulla ed infatti, l’abbraccio finale e liberatorio della Pandolfi al suo datore di lavoro, anziché al marito, con quel voler insistentemente creare il paradosso ad ogni occasione ed a tutti i costi, rende vane e marginalizza le riflessioni sul disagio, sulla morte che ricongiunge, sugli imbarazzi di ogni età, sull’immaturità di una scelta,  sui distacchi da mamme ingombranti (da giovani e da meno giovani). La Sandrelli meriterebbe un discorso a parte ma, con chi parla di un suo giganteggiare mi sembra non sussistano le basi per una critica obiettiva. Stefania vivacchia sopra le righe e proprio questo suo uscire dai binari la rende protagonista sui generis. Se dovesse convincerci nelle vesti di un personaggio persona, ogni credibilità svanirebbe. In questo, al contrario, riescono Mastandrea ed, in parte la Ramazzotti, quando non la disegnino fumettisticamente (con la sigaretta a mezz’aria ed i figli da scudieri, come in occasione della visita al marito malato stanco e semipentito di fare la spola tra quelle due sorelle che gli sono toccate). Sulla Pandolfi poi, stendo un pietosissimo velo. Pure in primo piano ci siamo dovuti beccare le sue marchiane titubanze intepretative…

Evidente che sullo stesso metro delle mie appuntabilissime obiezioni mi si potrebbe dire: ma vatti a vedere un altro film allora… e non che si abbiano tutti i torti… infatti a questo seguirà Baciami ancora, e sarà solo allora che, avvolto dalla brace rimpiangerò, probabilmente, la padella…

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