Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
L’amor che move il sole e l’altre stelle, e d’altronde siamo in Toscana, terra di mare e d’aria di vetro. È l’amor che muove la storia, è una storia d’amore in ogni suo aspetto. C’eravamo tanto amati (e il capolavoro di Ettore Scola è sempre presente, in qualunque angolo, dalle citazioni alle persone) e ci ameremo ancora, da qui all’eternità (Eternità, spalanca le tue braccia…). È un’educazione sentimentale quelle che intraprende il livornese Paolo Virzì dirigendo quello che probabilmente è il suo film più sincero, genuino, bello. È la storia di una donna, Anna (uno dei più grandi personaggi femminili di tutto il cinema italiano), che cresce (sì, cresce: perché è una bambina che ha interrotto troppo presto la sua maturazione, immersa nel candore del suo vivere leggero) nell’Italietta provincialotta degli anni settanta tra un marito possessivo e manesco, una sorella gelosa e un po’ racchia, una miriade di maschi di qualunque razza che le ronza intorno, una dolcissima arte di arrangiarsi (sia una parte da figurante sul set de La moglie del prete o sia un lavoretto da commessa in un negozio di articoli sportivi), un po’ di sfiga e tanto amore. E soprattutto due figli che sembrano essere i veri genitori di questa mamma così leggiadramente volubile, ma dal cuore grande grande. Nella migliore tradizione della commedia nostrana, Virzì mette su una splendida macchina della memoria emotiva, saltando dal passato (dalla fotografia d’umido acquarello, con i costumi del Premio Oscar Gabriella Pescucci) al presente con disinvolta levità, in cui tutti attingono qualcosa grazie a vari elementi.
Innanzitutto, sin dal titolo che cita una popolare canzone di Nicola Di Bari, Virzì e i suoi sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo (insomma, tre tra i migliori scrittori di cinema su piazza) danno la giusta dignità alla musica pop italiana. Alla faccia della spocchia, ne La prima cosa bella il ritmo della narrazione è dettato da canzoni che raccontano di noi e del nostro vissuto cosmico e microcosmico assai di più rispetto a qualunque ricerca sociologica. Sono canzoni che hanno segnato un’epoca e sono entrate nel nostro patrimonio genetico. Resta così una scena efficacie quella in cui Anna, cacciata di casa, barcolla per il corso deserto di notte canticchiando assieme ai figli la canzone del titolo, così come risulta meraviglioso il gran finale nell’anticamera della morte con i tre protagonisti che cantano ancora quella vecchia canzone. E ballando una danza malinconica e piena di segreti sulle note del Tango delle capinere, magari si riesce a comunicare meglio. “Sì, lo so, tutta la vita sempre solo non sarò e un giorno io saprò d’essere un piccolo pensiero nella più grande immensità di quel cielo” sembra di sentire.
Poi c’è un importante discorso stilistico: la cifra fondamentale del cinema virziano è la precarietà universale, e naturalmente anche qui è presente, specialmente nella rappresentazione dei personaggi adulti (i bambini sono ancora troppo incoscienti, nonostante siano spesso i più maturi). La continuità con il precedente cinema dell’autore livornese è assicurata dall’inconcludenza di Bruno, dalla frivolezza disperata di Anna che tenta in qualunque modo di vedere i bicchieri mezzi pieni e mai mezzi vuoti, dai silenzi instabili di Valeria, dalle nevrosi di papà Mario. E infine non si può dimenticare il grande tema che sta alla base di questo film: l’amore che può anche far male, ma sempre a fin di bene. Per quanto possa sembrare un controsenso, è quanto di più vero si possa dire su La prima cosa bella (che in origine è una canzone dedicata ad un figlio, ma che nella versione dei Ricchi e Poveri si è trasformata in una dedica d’amore più convenzionale), film d’amore e sull’amore.
È una scena d’amore quella, sotto il diluvio, in cui mamma Anna afferra tra le braccia la figlioletta che ha paura di gettarsi dal tetto, cascando di conseguenza in una vasca piena d’acqua; è una scena d’amore quella in cui il figlio Bruno pedina l’uomo che ha appena fatto sesso con la madre, scoprendo che si tratta del padre, da sempre innamorato di quella mamma troppo ingombrante (dopotutto, come dirà Bruno da quarantenne, la madre è una donna che ti rovina la vita – ma sotto quel ‘rovina’ c’è un mondo da scoprire); è una scena d’amore (verso i propri figli), quella in cui Anna ruba dal polso del cadavere del marito un orologio; è una scena d’amore l’incontro tra la malata Anna e il ritornante e ricalcitrante figliol prodigo Bruno di fronte ad una puntata di Uomini e donne; è una scena d’amore la ricerca che Bruno compie della madre scomparsa, ritrovata poi a piangere in una sala cinematografica; trasuda d’amore tutta l’ultima mezz’ora in cui le tinte si fanno più delicate, le gocce della bottiglietta della flebo danno il motore all’azione e il drappo amaranto (vecchio cuore livornese) del letto colora di passione la scena. E si comincia a singhiozzare quando si incontrano Anna e la moglie dell’avvocato, la donna forse che più le è riconoscente.
Troppo amore può far male? Forse, se ad una mamma troppo fiera e troppo fragile, eppure irrimediabilmente leggera, corrispondono dei figli così deboli ed infelici. È proprio questa donna così maestosa nei suoi errori esistenziali a reggere da colonna portante l’intero film. Micaela Ramazzotti la interpreta dagli anni settanta agli ottanta, e la sua recitazione profuma di tanti altri personaggi femminili del cinema italiano, dalla Adriana di Io la conoscevo bene alla Luciana Zanon di C’eravamo tanto amati (che ormai è un film simbolo nel percorso di Virzì, già presente nel precedente Tutta la vita davanti), ed attinge il naso a Giovanna Ralli (“nuovamente, ho introppato” è una commovente citazione della Elide Catenacci del film di Scola) e Stefania Sandrelli. Proprio la maestosa Stefania è la (naturale) proiezione matura di Anna: la sua stupenda interpretazione, di gran lunga uno dei migliori ritratti della sua carriera, mischia il candore alla disillusione, la dolcezza all’agrodolce, la follia alla schiettezza, che sia vitale anche con una cotonata parrucca di ricci neri che nascondono i capelli disordinati e aridi o pallida nella sua morente decadenza (capolavoro d’attrice).
Quel che ne esce è una elegante staffetta di attrici e di generazioni. Non sono da meno i figli, impersonati da uno splendido Valerio Mastandrea, tossico in crisi d’astinenze emotive, e una Claudia Pandolfi nel miglior ruolo della sua carriera (con guizzo finale di disperata intensità), senza dimenticare il gentile Marco Messeri e la deliziosa Fabrizia Sacchi. C’è Marco Risi che recita la parte di suo padre Dino sul set de La moglie del prete. Commovente commedia all’italiana dagli orizzonti sentimentali (la politica è solo sfiorata nei suoi luoghi: c’è una sede del Partito Comunista, che praticamente a Livorno vale quanto una gondola a Venezia), caldo come l’abbraccio di una madre affettuosa, accogliente come la vecchia casa dei genitori, riconciliante come un bel bagno a mare. Un grande film, senza se e senza ma.
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