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Brothers

Regia di Jim Sheridan vedi scheda film

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(spopola) 1726792

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La recensione su Brothers

di (spopola) 1726792
8 stelle

La guerra è un rozzo e violento mestiere[1] ma solo chi l’ha praticata davvero può veramente comprenderne la sua sporca inutilità. Sam ormai lo capisce, ma non è sufficiente saperlo per  assolversi, ed è ormai troppo tardi per ritrovare una tregua interiore che gli consenta di giudicarsi almeno “non responsabile”.

Il  cuore lo ha lasciato laggiù, in Afganistan, e con quello,  ha smarrito anche ogni  orgogliosa certezza: non è rimasta in lui nessuna residua fierezza per essere stato l’illuso esportatore di  un ingannevole abbaglio di libertà che ha dovuto pagare a così caro prezzo.

E’ di nuovo a casa, ma è come una larva che non riesce a riprendere forma. Ha ritrovato i suoi affetti più cari che quasi non riconosce e rifiuta. Pensa di non meritarli ancora, o forse che è ormai troppo tardi per ricominciare. Troppo grave è la colpa di cui si è macchiato, un atto tanto infamante che lo fa vergognare di essere un uomo. Non ha più alcuna fiducia in se stesso  e ancor meno negli altri. Diffida di tutto e di tutti ed è come sospeso a mezz’aria. Immagina  inganni e minacce che trasformano il vivere quotidiano in un’esperienza crudele che disintegra gli ultimi residui barlumi della sua positività di una volta.

 

 

La guerra non è un istinto, ma una terribile invenzione dell’uomo[2]: se lo ripete inutilmente ogni giorno per tentare di ritrovare la sua innocenza perduta, per ribadire a se stesso la propria impunibilità, per convincersi che non aveva altra scelta, che quello era l’unico, terribile mezzo per restare vivo, ma non riesce a riavvolgere il nastro per accettare e condividere con chi gli è vicino la verità ripugnante che lo sta lentamente schiacciando: si odia tanto profondamente da vedere nemici dappertutto, persino nelle bambine, in sua moglie e nell’insicuro fratello su cui nutre il sospetto di aver voluto usurpare il suo ruolo di padre e marito per essersi preso cura della famiglia, quando era stato dato per morto e c’era invece solo la profonda ferita di una prematura vedovanza da risanare.

 

La realtà è il più abile dei nemici soprattutto se si nutre di dubbi. Lancia i suoi attacchi contro quel punto del nostro cuore dove non ce li aspettavamo, e dove non avevamo preparato difese[3] ma lui non è in grado di considerarlo, non ha sufficiente lucidità per farlo.

Sam non racconta né parla per chiedere almeno un supporto che lo aiuti a sostenere il peso di quel gesto aborrito che lo ha reso assassino, e aumenta così ancor di più insieme alla diffidenza e alla non accettazione, anche lo sbigottimento veemente che alimenta la rabbiosa invadenza del dubbio che non lascia spazi alla speranza.

 

 

Quel che una volta  si chiamava il mondo oggettivo, è adesso per lui  una specie  di macchia  Rorschach[4] che  assume al suo sguardo mutevoli forme cangianti, a seconda degli umori e delle percezioni,  pervaso com’è da un’ira repressa  che diventa sempre più irrefrenabile col suo pressante bisogno di sfogarsi all’esterno.

L’ira  non è un sentimento primario, ma una incontrollata e prepotente esplosione che deflagra quando non ce la facciamo più a contenere la rabbia con il suo articolato groviglio di emozioni e turbamenti che coagulandosi fra loro, determinano quella scomposta reazione alchemica  fatta di collera,  frustrazioni, vessazioni, provocazioni,  inadeguatezza, e persino di “torti” subiti reali o presunti che siano,  tanto stratificata nel tempo, da diventare alla fine esondante, anche senza un nesso preciso fra causa ed effetto, perché la miccia che innesca il processo è spesso casuale, un piccolo fatto ininfluente che diventa però la classica goccia capace di far traboccare un vaso già colmo. Può bastare l’offesa, stizzita reazione di una bambina che sollecita provocatoriamente con le dita la superficie di gomma gracchiante di un palloncino gonfiato e lo stridore disturbante che genera, così fastidioso e invadente da  ferire la mente più delle parole a farsi innocente “scintilla” che dà fuoco alla miccia innescando così la miscela esplosiva che  può trasformare ogni cosa in tragedia.

Sam è ormai un vulcano che sclera ed erutta violenza. Solo chi come Tommy conosce per personale, diretta esperienza passata il pericolo che ne deriva, può intercettare e tentare di deviare tanto irrazionale furore: è suo fratello e lo fa senza esitare.  Si espone…lo bracca e lo abbraccia per fargli sentire che c’è, che è con lui e non lo abbandona. E  anche Sam, quando tutto parrebbe perduto, alla fine sembra comprendere quel gesto d’amore totale, mentre si affloscia esausto e disperato, come se avesse esaurito la carica e la frenesia che lo aveva invasato… La sua ira si è infine disciolta: rimane soltanto il dolore che lo rende simile a un naufrago senza più patria né famiglia, che annaspa sbattuto dai flussi di un mare in tempesta che lentamente si acquieta nel pianto: lui si guarda intorno e non ha già più terra dove andare… e non c’è un’ombra nella quale scomparire… Lui si guarda i piedi e non ha scarpe adatte per continuare a ballare[5].

 

 

[1] Friedrich Schiller, I Piccolomini

[2] Ortega y Gasset, La ribellione delle masse

[3] Marcel Proust, La prigioniera

[4] Lewis Mumford, The conduct of life

[5] Ivano Fossati, Terra dove andare

 

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