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Invictus. L'invincibile

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Invictus. L'invincibile

di FilmTv Rivista
8 stelle

Le note del piano come gocce di pioggia segnalano la presenza di Clint Eastwood, che avrebbe scelto per sé il ruolo di Mandela, e quello di Charlie Parker in Bird. Perché Invictus. L’invincibile, al di là del Sudafrica liberato, e della leggendaria partita di rugby contro i guerrieri maori All Blacks, gira tutto intorno a lui, al regista di Lettere da Iwo Jima, al “revenant”, il fantasma che torna a fare giustizia, a riconciliare i nemici. Più che a un altro film “sportivo”, Million Dollar Baby, Invictus. L’invincibile assomiglia a Gran Torino, dove il vecchio, amaro razzista che in Corea uccise i “musi gialli” si innamora di un ragazzino dagli occhi a mandorla, il vicino di casa, tormento e rivelazione, e per salvarlo si fa martire. Così Mandela, salvato dalla poesia di William Ernest Henley, che dà il titolo al film, libero dopo 27 anni di carcere, sa che per vincere è necessario essere migliori dell’avversario. Per allontanare gli incubi e andare in meta bisogna sorprendere, conoscere bene il proprio carnefice e disorientarlo. La canzone 9.000 Days su musica di Clint e parole di Dina, sua moglie, si intreccia con le composizioni del figlio Kyle e con l’Inno degli Springboks, la squadra nazionale sudafricana, boicottata in tutto il mondo nell’era dell’apartheid, e fischiata dal 90% dei sudafricani. Presidente Mandela, il team, simbolo della segregazione, rischia lo scioglimento. Ma, contro tutti, il leader nero scommette sulla squadra senza più chance, perdente contro la nazionale inglese, destinata alla sconfitta nella Coppa del Mondo 1995. «Io sono capitano della mia anima», i versi del poeta accompagnano la grande impresa, ritrovare l’unità di un popolo diviso in un campo di rugby, perché «lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, ha il potere di unire il popolo, come poche altre cose fanno». Così Mandela, materializzato nei gesti soavi da Morgan Freeman, l’attore militante e amico che ha proposto a Clint Eastwood il progetto (tratto dal libro di John Carlin Playing the Enemy), attraversa il film tra l’entusiasmo dei neri e il rifiuto dei bianchi, la minoranza che aspetta la vendetta. Allenatore appassionato, gettato nella mischia degli Springboks capitanati dal biondissimo Francois Pienaar (Matt Damon) Eastwood coniuga il film d’azione con l’atmosfera rarefatta, il rigore fordiano, la leggerezza di tocco. Una specie di incantamento, di chi osserva con devozione l’anziano Mandela, il gentile presidente che impara a memoria i nomi dei giocatori, e indossa maglietta e cappello della squadra, spedita a giocare nei ghetti black, tra le baracche di lamiere, la polvere e i ragazzini urlanti dietro l’unico giocatore nero. Nessuno ci crede, neppure le guardie del corpo, costrette a condividere la scorta del presidente con un gruppo di afrikaner dalla faccia minacciosa. Mandela pazientemente convince tutti i suoi collaboratori riluttanti che si tratta di un calcolo politico, che se gli Springboks vinceranno, vincerà il nuovo Sudafrica. Ma non è vero. Al Mandela di Eastwood piace il capitano Francois, e non c’è nulla di più delizioso per lui che vedere la trasformazione dello sguardo “nemico” quando si posa sulla cella dove fu rinchiuso per una vita, quando i fantasmi dell’apartheid, uomini neri ai lavori forzati, turbano il bianco giocatore di rugby. Nel tour de force verso la finale, Mandela, impegnato in incontri internazionali estenuanti, trova sempre il momento per il team verde e oro, colori che andranno a comporre la “nazione arcobaleno”. E nel frastuono dei campi, nell’urlo dei tifosi, nella violenza del gioco, Clint mantiene una traccia sottovoce, si ferma, chiama il silenzio, la penombra, inquadra dettagli, e insieme a Mandela si rivolge ai guardiaspalle, alle cameriere, agli “invisibili”, non solo ai campioni. C’è proprio Clint Eastwood seduto in tribuna accanto al presidente sudafricano, distratto da un bambino smilzo con una borsa in spalla. Il piccolo fende la folla - intanto l’azione degli Springboks travolge i neozelandesi - e si avvicina a una macchina della polizia, gli agenti lo cacciano con la brutalità di un tempo. E mentre i punti si accumulano sul cartellone dello stadio, il ragazzino si ritrova insieme ai due tifosi afrikaner, esultante, a sentire la radio a tutto volume. La vittoria sarà lì, fuori campo, nel corpicino nero sollevato in trionfo dai due giganti bianchi. Più prezioso della coppa d’oro.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 8 del 2010

Autore: Mariuccia Ciotta

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