Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Invictus è il titolo della poesia che salvò Nelson Mandela richiuso nella sua cella per 27 anni. Invincibile, padrone della propria anima in una terra di pochi padroni e molti servi, da quei pochi metri quadrati e uno spiraglio su un cortile sassoso seppe immaginare il suo paese in modo diverso.
Invincibile è Clint Eastwood e il suo cinema fiero faro della classicità, impassibile alle mareggiate delle mode, degli stili caotici, degli sperimentalismi autoreferenziali che conquistano per una stagione e poi scompaiono. La sua rivoluzione è rimanere l’unico alfiere della solida tradizione cinematografica americana, quella dei grandi narratori alla John Ford. Stile e storia si accordano alla perfezione, Eastwood attraverso l’epica di un uomo cerca l’etica smarrita di un popolo in grave ritardo sull’evoluzione del mondo, sublima le attenzioni sulle fattezze mimetiche di Morgan Freeman-Mandela, ne scandisce i tempi con pazienza seguendolo nella sua pacata rivoluzione che comincia da dentro. Dentro se stesso, dentro la cella, dentro il proprio staff, dentro la squadra di rugby fino a che il “dentro” non acquisisce un valore talmente alto da smarrire il senso della parola nelle strade nell’intero paese in festa. Una squadra, una paese.
Invictus non è tuttavia solo un film sul Leader Sudafricano, come non è solo il racconto di un fatto sportivo eccezionale. E’ piuttosto il posarsi dello sguardo sulla consapevolezza del potere del perdono, sulla comunione di un popolo riconciliato con se stesso e una metafora sulle capacità dell’essere umano di cambiare il proprio destino, se ne vale la pena. Quello sguardo che filtra dalla cella nella quale erano rinchiusi il 90% dei sudafricani che padroni della propria anima, accettano di accompagnare alla vittoria gli Springboks l’odiata squadra di rugby composta da afrikaner bianchi. Il miracolo del Sudafrica si sovrappone al miracolo sportivo di una squadra, capitanata da un trattenuto Matt Damon, che nella spinta del popolo trova il coraggio e l’orgoglio per battere gli invincibili all black neozelandesi.
Una storia vera che sembra scritta per il cinema, dall’atmosfera rarefatta e sospesa nell’aleggiare degli eventi che attendono solo di essere (de)scritti. Il pericolo di scadere nel resoconto filmato infatti è sempre presente, la biografia richiede aderenza ai fatti e la necessità di convivenza dell’ ufficialità della Storia con l’ufficiosità della vita privata a volte può risultare artificioso. Eastwood ha però un tocco leggero, tratteggia Nelson Mandela come una figura chapliniana quasi fuori contesto, offesa e fortificata dal destino, giustificata e resa credibile dalla voce di chi lo circonda, il popolo, i collaboratori, gli abitanti delle baraccopoli che di Madiba, come viene chiamato dalla sua gente, ne subiscono il fascino. Grande attenzione viene rivolta alla musica (composta dallo stesso Eastwood) e in generale ai suoni: gli inni e le sonorità etniche come il boato dello stadio e i sofferti tonfi dei muscoli dei rugbisti in mischia danno pathos alla storia mentre un delizioso montaggio alternato accomuna l’evolversi vittorioso della partita con il paese intero che comincia a dare segnali di unione. La scena del ragazzino nero sollevato in trionfo dai poliziotti bianchi sulla conquista della Coppa del Mondo non si sa se sia realtà o finzione, sicuramente è all Eastwood, la vetta di un’emozione trascinante e consapevolmente retorica. Ma ogni vittoria è così.
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