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Invictus. L'invincibile

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Invictus. L'invincibile

di scapigliato
10 stelle

Con quale arroganza l’uomo bianco - con il suo patetico fardello - decide che la terra dei nativi neri è sua? Con quale arroganza l’uomo bianco chiama Nelson Mandela “terrorista”? Con quale arroganza l’uomo bianco in casa dell’uomo nero dice che quello che è fuori posto è l’uomo nero? E con quale arroganza l’uomo bianco dice di essere superiore ad altri uomini?
Risponde Clint Eastwood. E risponde con un film che ha lasciato la retorica negli armadietti, la pomposità l’ha messa in panchina con la fanfara e il moralismo. Invictus è un film silenzioso, lineare, semplicissimo. È un film diretto con quel tocco leggero, secco, incisivo, senza fronzoli o parole inutili, con cui la realtà viene riproposta nella sua immanenza e nella sua immediatezza. Come il terribile incipit in cui i ragazzini neri che giocano in un campo arido si arrampicano ed esultano al passaggio della macchina che scorta il neo-liberato Nelson Mandela, mentre dalla parte opposta, arroganti uomini bianchi abbaiano contro i neri, masticano odio e temono che questa emancipazione sia la loro prossima rovina. I momenti più emozionanti, manco a dirlo, non sono le pur ben coreografate e ben dirette scene sportive, partite o allenamenti che siano, ma inaspettate scene di semplice umanità, prive di quella retorica del gesto e dell’immagine tipica dei prodotti dell’uomo bianco benedetto da dio. Parlo di quel quarto biglietto per la domestica della famiglia del protagonista che può così anche lei vedere la finale, parlo della partitella tra guardie del corpo nere e bianche, parlo di quegli allenamenti “speciali” che gli Springboks fanno con dei bambini neri, e parlo infine di quel ragazzino che piano piano si avvicina sempre più ai due uomini bianchi della sicurezza e a fine partita con loro esulta, si fa prendere in braccio, scherza e scimmieggia contento che la nazionale verde-oro abbia vinto, quando all’inizio del film aveva addirittura rifiutato di indossarne la blusa.
Immagini. Immagini a cui non va dato un significato politico quanto umano. Il cinema parla per immagini e se certo non possiamo ridurlo soltanto a questo possiamo invece capire che senza la potenza dell’immagine, dei suoi riferimenti simbolici, della dialettica tra le forme e la loro coreografia, la loro presenza, la loro rappresentazione, non andremo lontano.
Clint Eastwood non ha fatto un film sportivo, nè biografico. La realtà storica c’è e si vede. I fatti sono quelli e sono fuor di dubbio. La dominante sportiva è costante, certo, e ad essa è dedicata l’intera sequenza finale in un rallenti accelerato che mette i brividi. Ma nonostante questo Clint Eastwood ha semplicemente raccontato una storia. L’ha fatto depurandola da orpelli melodrammatici, privandola del buonismo che tutto moralizza e sdrammatizzando sistematicamente i momenti più commoventi. É infatti un film che commuove, ma non sotto ricatto. La gioia che vediamo imprimersi sui volti dei protagonisti è contagiosa perchè è vera, appartiene alla verità storica, ma ancor di più appartiene alla verità umana. L’uomo e non dio. L’uomo e non il paese. L’uomo e non la ricchezza. Di questo parla e ha sempre parlato con delicatezza e incisività Clint Eastwood. Che piaccia o no. Che faccia comodo o no. Che disturbi o no. Così è.
Se in più aggiungiamo un Morgan Freeman trascinante - forse tale perchè lo è lo stesso Mandela - e un Matt Damon così sobrio da essere reale e palpitante, allora viene ancora più facile vedere Invictus non come l’ennesimo capolavoro di Clint Eastwood - diciamolo, non siamo davanti a Million Dollar Baby o a Gli Spietati o a Gran Torino, film questo che condivide con Invictus un’estrema semplicità dello sviluppo narrativo e della componente estetica, asciutta, secca ma vera, diretta, spiazzante - ma come un piccolo capolavoro di sintesi umana e storica. Tra gli attori c’è anche Scott Eastwood che nonostante in ruoli di contorno sa riempire la scena - è tutto suo padre! - ma non dà segni di avere nel sangue quella scintilla magica che serve ad un attore per essere tale. Si spera che possa un giorno dimostrare il contrario. Il primo a sperarlo sono io.
Il dito accusatorio verso il mondo bianco-occidentale e ai suoi soprusi, le sue angherie, il suo egocentrismo religioso ed economico è il vero protagonista del film che, mascherato da parabola sportiva e biografica è soprattutto una “guida per riconoscere gli uomini”. Quello che conta in Invictus non è il fattore estetico che già possiamo trovare funzionale in film come Million Dollar Baby, ma è lo human calculation, lo human factor del titolo di lavorazione ciò che davvero conta in questa trentesima regia estwoodiana - anche se va detto che l’asciuttezza del linguaggio filmico in Invictus è funzionale alla percezione della semplicità della vita rappresentata.
Insomma, il cinema e il suo linguaggio al servizio della causa umana senza patetismi occidentali, ma con un pathos universale che parla direttamente all’esperienza sensibile di ogni spettatore. Ne è un esempio la sequenza girata nell’isola carceraria. Gli Springboks capitanati da Matt Damon visitano il carcere del loro nuovo presidente. L’attore protagonista, nei panni di François Pienaar, entra nella cella di Mandela. Vede la stuoia sulla quale ha dormito per 27 anni. Ha aperto le braccia e calcolato lo spazio vitale della gabbia in cui Mandela ha vissuto per 27 anni. Ha guardato fuori dalle sbarre sullo sterrato dove Mandela ha lavorato forzatamente per 27 anni. In sottofondo, Morgan Freeman recita i versi di Invictus, e in lingua originale è forse il momento più alto del film. Ed è in sequenze come questa, soprattutto in quelle senza accompagnamento musicale in cui la realtà ci viene restituita in tutta la sua bellezza o in tutto il suo dolore. Colonna sonora che è chiaramente ulteriore cifra stilistica dell’intera operazione, a firma stavolta del figlio Kyle.
Eastwood sta progressivamente depurando il suo cinema. La prima tappa, Gran Torino, ci ha mostrato una semplicità narrativa in cui l’essenziale diventava problematica civile. Oggi, con Invictus, ci conferma come il tocco scarno e disossato del corpo filmico serva alle coscienze come alle civiltà per raccontare la vita, nel bene e nel male. Perchè in Invictus a fine partita, non hanno vinto i bianchi. Non hanno vinto i neri. Non ha vinto un paese. Ha vinto l’Uomo. E mi ostino a parlare di “uomo eastwoodiano” come icona problematica dell’uomo del XXI secolo.

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