Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
E’ difficile parlare dei maestri perché di loro si è detto già tutto, e quando lo si fa’ si rischia di parlare dell’ovvio, oppure di ledere l’aura di intoccabilità che li circonda quando il film non soddisfa le aspettative. E’ questo il caso di “Invictus”, ultimo film di Clint Eastwood, un artista già in odore di santità, che attraverso un episodio della vita del celebre Mandela si cimenta nuovamente con gli eventi della Storia, immergendoli all’interno di una poetica del quotidiano che fa i conti con la vita e misura la grandezza degli uomini dalla dignità dei loro gesti più che dal clamore dei resoconti cronachistici. Anche nella scelta di raccontare attraverso un episodio minore la lungimiranza, per altri versi eclatante, del vecchio leader alle prese con i problemi di un paese ancora lacerato dalle tensioni razziali, ed in profonda crisi economica, (l’unificazione della Nazione passò anche attraverso al successo mondiale della nazionale di rugby sottratta all’esclusività dei soli Afrikaners e restituita alla popolazione nella sua totalità) Eastwood conferma la sua predilezione per una marginalità che racchiude l’essenza delle cose. Ma anche qui, come già in passato gli era capitato, il regista è costretto a fare i conti con il passo della Storia, che concede molto in termini di fascinazione, ma esige anche un dimensione ufficiale che in qualche modo sembra togliere il respiro a quella privata e particolare del regista americano. Così dopo un inizio folgorante, in cui il passaggio della scorta presidenziale, con le diverse reazioni dei ragazzi impegnati sui rispettivi campi di gioco è da solo significativo del momento storico, ed alcuni accenni al privato di Mandela alle prese con una paternità piena di rimorsi (un altro must del regista), il film inizia lentamente ma in maniera inesorabile a deragliare verso una narrazione che deve dare conto dei fatti e cede il passo al resoconto. Insomma una sorta di prigione in cui rimane coinvolta la spontaneità di Morgan Freeman, imbrigliata da una performance interessata esclusivamente a replicare l’iconografia ufficiale del personaggio, ed il professionismo di Matt Damon, alle prese con un ruolo che non gli offre molte chance anche in termini di minutaggio. Certo non mancano qua e là reminescenze di grande cinema, soprattutto negli spazi dedicati al rapporto tra Mandela ed il capitano della squadra (saranno proprio i suggerimenti del primo a ridare ossigeno ad un team senza identità e sull’orlo di essere disciolto), ma per il resto si cade nell’anneddotica sociale, con il bambino di colore che segue la partita insieme ai poliziotti che poco prima lo scacciavano, e sportiva, con inquadrature dello stadio stracolmo a simboleggiare la ritrovata unità ed una partita finale dilatata all’infinito dall’uso di un rallentì a rischio di maniera. Insomma per chi scrive un film che non toglie niente alla fama del suo autore ma che neanche aggiunge nulla rispetto ad una carriera che non finisce di stupire se è vera la notizia di un prossimo thriller soprannaturale (Hereafter) con Matt Demon protagonista.
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