Regia di Francesca Comencini vedi scheda film
Porca miseria. Io Maria la vedevo bruna.
L'avevo immaginata bruna senza neanche provare a chiedermene il perché. Non voglio cadere nell'errore, quello tipico, del confronto di mezzi diversi (la parola scritta e l'immagine filmata). Non mi interessa stabilire una graduatoria e paragonare il racconto a una scelta di immagini. Non voglio e per fortuna a parte il colore dei capelli (immaginato) sono abbastanza libera da questo meccanismo, perché ho letto il libro molto tempo fa (e lo ricordo poco, come in tutti i casi dei libri che so che rileggerò e che avrò bisogno di rileggere) e ho rimandato volontariamente la visione del film.
Cristina Comencini non mi piace particolarmente (ma ovviamente non c'entra nulla) e di Francesca non avevo visto ancora niente. E poi avevo paura del cliché della Buy, dimenticandomi che anche nel cliché è una brava attrice. Insomma, del libro ricordo solo che mi aveva ferito il giusto, ma non ricordavo particolari o elementi della storia. Mi è sembrato un buon presupposto per vedere, finalmente, il film, in modo da evitare continui paragoni.
Qualche giorno fa sulla scia di una notizia legata a Napoli, avevo letto un bell'articolo di Antonio Menna, ficcante come sempre, in cui puntualizzava l'attitudine prettamente napoletana ad attaccare per partito preso chiunque osi mettere in discussione i pregi e i vanti secolari della città e del popolo di Napoli.
Ebbene, ci ho riflettuto a lungo, chiedendomi se non fossi partita anch'io con questo pregiudizio, guardandolo sotto l'influsso di questa medesima attitudine. Ma ho sentito forse attaccare in qualche modo Napoli nelle immagini di una non napoletana? No, non credo proprio. Non è questo che fa de Lo spazio bianco un film su una Napoli strana, secondo me. Sono sicura che nel libro ci fosse molta Napoli, e approvo la scelta di zittirne una parte nel film, come cercherò di spiegare.
Non ho visto altro della Comencini: il suo talento, però, per me è oggettivo. La Napoli che descrive è misplaced. Non so come dirlo in italiano: non è 'fuori posto', è 'piazzata nel posto sbagliato', anzi, 'piazzata male', 'piazzata altrove'.
I due linguaggi che di solito si usano per delineare il volto della città sono opposti: la poesia e la carne, la brutalità e la saggezza. Ecco, non sono sicura di saper spiegare il perché della mia sensazione, ma la Comencini per me è come se avesse modificato il bersaglio. La poesia c'è, ma è nel posto sbagliato. Anzi, ci sono tutti gli elementi, ma è come se li avesse scambiati di posto. E non per una mancata fedeltà al libro (che mi sono riproposta di rileggere dopo la visione del film e la stesura di queste impressioni). Ma per un scelta coraggiosa di spostamento della prospettiva. Non avrebbe mai potuto privare questa storia della città in cui è stata ambientata: ma ne ha riconfigurato le proporzioni.
La storia di Maria è il racconto di un'attesa: sua figlia Irene, nata prematura, aspetta di nascere (o morire) in un'incubatrice, mentre Maria cerca di continuare a insegnare ai suoi alunni della scuola serale. Laddove nel libro Maria è napoletana e quindi percepisce la città e le persone come estensione di sé, nel film lo stesso personaggio annuncia subito che ha scelto Napoli, ma questo, al di là dell'ovvia motivazione di scelta della Buy come protagonista, ha anche dei legami sottili con il modo di chiamare in causa la città nella narrazione. La variazione di prospettiva è funzionale alla definizione dell'inquietudine di Maria-Buy.
Privata della funzione di complice, la città diventa specchio delle paure di Maria, forse tecnicamente più muta e meno descritta o raccontata, ma non per questo più viva.
Ma l'attesa di Maria rimane feroce. La verosimiglianza e la lucidità di certi dialoghi sono la prova di questa ferocia. La musica, a volte solo apparentemente fuori tema, sottolinea questi momenti di ferocia. C'è qualcosa, proprio a proposito della musica, che a volte mi ha fatto percepire Francesca Comencini come una specie di Sorrentino al femminile: ma mi riferisco al primo Sorrentino, quello sporco, quello più napoletano, quello dell'Uomo in più o del corto La notte lunga. Come faceva Sorrentino (anche se lui in realtà ammette candidamente che mette nei film la musica che ascolta), la Comencini sottolinea punti precisi della storia con scelte musicali che a un orecchio distratto possono suonare strane. Ma che trovo invece molto precise.
Sorrentino mi è tornato in mente anche altre volte: per un certo gusto di costruzione dell'immagine o per certi movimenti della macchina che richiamano violentemente l'attenzione. Ma questo non vuol dire che la Comencini non abbia una sua personalità e delle idee definite.
Maria raccontata dalla Buy, infine. Mi è rimasta addosso la sensazione che la Comencini abbia contato troppo sull'attrice che ha scelto. O meglio, che le abbia scaricato la responsabilità del personaggio. A volte è come se la pelle mi dicesse che la Buy è sola, anche se poi se la cava alla grande. Cammina, pensa, aspetta, lotta con le formiche, cerca di non rispondere sgarbatamente alle altre mamme in attesa. Fuma, fuma sempre. Per quel che mi ricordo, il libro era la storia di un dentro che prendeva forma nella voce di Maria. L'intuizione secondo me geniale del film è stata portare fuori questo dentro, e trasferire l'attesa nell'interazione con gli altri. Esattamente come il dentro portato fuori della bambina che dovrebbe essere nell'utero e invece è venuta a contatto col mondo prima del tempo, benché attraverso il filtro dell'incubatrice. Irene, la figlia di cui Maria fatica perfino a tirar fuori dalla bocca il nome, diventa lo specchio di un dentro che non ha tempo di venir fuori, perché è fuori per sbaglio, e nel mondo vero potrebbe non arrivare mai. Maria è obbligata a fare i conti, con questo dentro/fuori. È obbligata a farlo perché non saprà fino all'ultimo se quei due mesi sono gli unici in cui potrà dire qualcosa alla figlia.
Probabilmente è per questo che sento misplaced carne e poesia. La Comencini li ha invertiti, come nella scena per me più significativa, ossia quando Maria si trova costretta a cantare in prima persona qualcosa per la figlia, visto che non ha portato un cd per l'esperimento di musicoterapia (Te lo posso dire? A me mi pare tutto una cazzata.). Li ha invertiti perché il momento teoricamente più poetico, in cui Maria dovrebbe comunicare grado zero con la figlia, diventa il momento più carnale, dal momento che la voce viene ascoltata da tutti, e non è privata come ci aspetteremmo: e la sua ostinazione rimane, mentre canta, e attraversa tutti gli istanti in cui continua a cantare, pur se ascoltata fra sorrisi e qualche risatina dalle altre mamme. È quello il traguardo di Maria: non aspettare di vedere se alla fine dell'attesa Irene sarà nata o sarà morta, ma crederci fondendo speranza e realtà, e non nel senso insopportabile che danno i medici alla parola Speranza (voi dovete usare il linguaggio specialistico, perché almeno in quel caso non siete ridicoli). Che Irene nasca o muoia, a quel punto, non potrà cambiare il senso profondo dell'attesa.
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