Regia di Jörgen Bergmark vedi scheda film
Una interessante pellicola svedese, così minimalista nel suo modo di essere cinema “da camera”, così intima e pudica (non è un caso che il regista sia lo sceneggiatore dell’apprezzato Kitchen Stories) da appassionare e coinvolgere nel fornire l’insolito quadro di un quartetto: due coppie di amici e colleghi di lavoro e le loro mogli, spesso riuniti intorno a un tavolo a discutere, a confrontarsi, ad esprimere anche con amarezza il senso ultimo del loro rapporto e del loro amore (o anche della loro amicizia che comunque rimane prioritaria), a confessarsi persino pubblicamente, ma senza mai scannarsi, rispettando ogni scelta, compreso quelle che fanno male, dopo la ripresa di un legame adulterino che vede il nuovo infiammarsi (ricambiato) della passione di uno dei due maschi per la moglie dell’altro, in una auspicata (e impossibile) convivenza a quattro nella stessa abitazione per tentare di trovare appunto "una soluzione razionale".
Potemmo definirla una specie di ballata sui sentimenti, che ha semmai il difetto di “affogare” a volte fra le troppe parole che ne inquinano un poco il risultato (molto meglio i momenti dei silenzi e degli sguardi), che in ogni caso rimane di alto valore anche educativo, proprio per la sincerità e il rispetto con cui affronta il problema delle unioni e del tradimento.
Da noi, si sarebbe inevitabilmente sbracati verso il triviale (c’è da scommetterlo) privilegiando il becero ridanciano del paradosso grottesco. L’etica nordica invece riesce ad essere rigorosa e implacabile, capace persino di trattenere il risvolto drammatico che potrebbe nascondersi dietro a tutto questo, lasciando ampio spazio all'analisi amara delle reazioni che si intersecano, così differenziate fra loro, ma tutte condotte in porto con assoluta e rispettosa civiltà anche di pensiero, e vivisezionate con una invidiabile ottica che, pur non dimenticando la necessità di mantenere attiva la giusta distanza valutativa della razionalità, diventa anche straziata constatazione riflessiva dello spettatore (solo di una parte però, perché una buona fetta del pubblico italiano – poiché è ovviamente a questo che io mi riferisco, non sembra dimostrare di avere la preparazione culturale per “accettare” serenamente la prospettiva proposta dall’opera, e le reazioni in sala lo stavano a confermare, probabilmente perché ancorata al conformismo di una società – quella nostrana – troppo ossequiente ai paradigmi esteriori di un bigottismo di facciata che non accetta la mediazione).
La prima sezione dell’opera è più esplicativa: enuncia il teorema; la seconda lo analizza, anche se non fornisce definitive soluzioni, ma lo schema è (fortunatamente) lontano mille miglia anche dalla enfatizzazione “dell’amore romantico” all’americana e non solo (parlo del cinema, perché nella vita ovviamente le cose sono sempre più complicate).
Si potrebbe semmai obiettare al regista che la sua scelta è così “radicale” da sembrare più costruita a tavolino che realisticamente concreta, per lo meno con la consapevolezza reciproca che qui ci viene illustrata (ma che ne sappiamo davvero di come si muovono i sentimenti e le coscienze in terre così lontane e certamente più avanzate di noi , se non altro nel rinnegare l’ipocrisia?) perché “l’esperimento”, quasi una filosofica ponderazione in vitro, è davvero un po’ stravagante (passatemi il termine), ma invita se non altro alla ponderazione e al “confronto” senza ricatti o preconcetti (soprattutto di natura religiosa, che porterebbero ad identificare subito come “scandalose” certe reazioni – o relazioni che dir si voglia - quasi maternali o fraternamente comprensive, pur nella sofferenza e nel disagio chiaramente evidenziato di una situazione al limite). La ballata di Roy Orbison che chiude il film, ne è in un certo senso (indirettamente) la sintesi perfetta, perchè alle volte davvero l’amore può determinare dolore, persino involontario, fare molto male insomma.
Inutile dire che gli interpreti sono “stupendi” nel tratteggiare le quattro fisionomie contrapposte. In primo piano, la bergmaniana Pernilla August (la carnale Karin) e intorno a lei, ma spesso anche più toccanti nell’esprimere il disagio, l’impotenza, il dispiacere e la rassegnazione, Stina Ekblad, Magnus Eriksson e Rolf Lassgard.
Ottima la spenta resa cromatica della fotografia che fa sembrare persino più opprimente, quasi angosciante e straniato, il clima dell’insieme, fra casa, chiesa, fabbrica e qualche sporadica gara in go-kart, ancor più astrattamente disperata.
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