Regia di György Pálfi vedi scheda film
Dimenticatevi tutti i film sull’impagliamento dei cadaveri, Taxidermia è un unicum nella storia di questa benemerita quanto lugubre professione. Chi ha fatto la fila per vedere Lenin imbalsamato o il più recente padre Pio non troverà nel film in oggetto nessuna santità laica o miracolistica. Nessuna parentela neppure con L’imbalsamatore di Matteo Garrone né con la perturbante madre di Norman Bates. Taxidermia è la messa in scena di rivoli culturali che, partendo dagli studi dell’humour carnevalesco di Bachtin, ingloba e assorbe il lato necrofilo che Ferreri aveva illustrato nella Grande abbuffata e il grasso che cola in Grasso è bello di John Waters e in Fight Club di David Fincher, per approdare a una visione escrementizia del mondo (comunista o capitalista – non ci sono differenze) degna di Jonathan Swift.
Comico, grottesco, horror, si intrecciano in questa affascinante metafora del potere che riduce gli uomini alla pura bestialità. Non c’è nessuna differenza tra i porci all’ingrasso e un’umanità derelitta le cui ossessioni sono il sesso e il cibo, il primo decaduto a invenzione onanistico-compulsiva, il secondo, in ossequio alla frase di Marx, “l’uomo è ciò che mangia”, rovesciandone il significato economico in direzione di un’abbuffata colossale, biblica direi, nella quale enormi macchinari distribuiscono cibo deteriore da somministrare ai sudditi in enormi casermoni dove non si distinguono gli uomini dalle bestie.
In questo universo concentrazionario si snoda la storia di tre generazioni di sudditi che, a partire dall’era staliniana, arriva alla moderna società capitalistica.
La prima generazione è quella del periodo della fame e del sesso e si svolge in un’Ungheria (in un luogo imprecisato) derelitta e mortificata in cui permangono i segni funesti dello stalinismo. I protagonisti sono il tenente Balatony Kálmán e l’onanista compulsivo Morosgoványi Vendel. Tra i due c’è un rapporto di subordinazione, nonostante l’ambiente brullo contadino non autorizzi a pensare che ci sia una guerra. È un rapporto osceno perché entrambi sono ossessionati dal sesso e Vendel inventa “prodigiose” macchine masturbatorie fino a quando, in una scena dalla potenza delirante, non mette in cinta una virago assatanata e famelica di “cazzo”.
Dalla scopata tra le due mostruosità nasce Miszlényi Béla, il figlio diletto che con costanti allenamenti al limite della scorpacciata rabelaisiana, diventerà campione dell’Est di gare estenuanti di grandi mangiate tra il pubblico in delirio. Il regista non ci risparmia apoteosi di vomiti, rutti, liquami residui di pranzi iperbolici. Béla, come dirà alla fine, è stato anche l’inventore di un “nuovo tipo di vomito.”
La terza generazione vede contrapposti il padre Béla al figlio Lajoska: il primo vive nel laboratorio del figlio, è grasso quanto la camera che ne contiene il corpo, non può muoversi, può solo aprire bocca per sentenziare sul proprio passato gladiatorio; Lajoska è mortalmente magro ed emaciato e tra i due si ingaggia una lotta tra potere e sopravvivenza, tra passato e presente, entrambi lugubri e senza speranza.
Non rivelo il finale per non togliere agli eventuali spettatori la mostruosa sorpresa che il regista appronta con le armi affilate di un cinema che si confronta con l’arte moderna (i macelli di Damien Hirst) e, come in tutti i grandi satirici, con un’ipotesi agghiacciante sul destino degli uomini nelle società chiuse
Il regista, l’ungherese György Pálfi, è da tenere d’occhio. Il film è di un’originalità assoluta e se qualcosa trapela dalla sua poetica e dal modo in cui padroneggia ogni stile, è sempre dalla grande fucina dell’umore nero dei paesi dell’est europeo che trae ispirazione, penso ai romanzi di Ladislav Fuks (Il bruciacadaveri), al cinema di Dusan Makavejev e Jan Svankmajer.
Per finire, ricordo le tecniche innovative (altro che digitale!) che Pálfi utilizza nella sequenza del delirio masturbatorio mentre Vendel racconta la fiaba della Piccola fiammiferaia a una bambina, la moltiplicazione dei punti di vista nelle scene delle mangiate olimpioniche, i frequenti carrelli all’indietro dei quali si era perduta la memoria.
Soundtrack 'di lusso' di Amon Tobin che è stata riversata nel 2006 nell'EP omonimo [Run Part/Blood, Sweat And More Blood/Taxidermia/Run/Bath Scene (Here Comes The Moon Man)/Rural Soldiers/Introducing The Son/Factory Training/axidermia (Magpie Mix)] Il cd contiene extended version e remixes.
[Nota: sul post di CineRepublic potete ascoltare tre track dall'album]
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