Regia di Neill Blomkamp vedi scheda film
Spesso andiamo al cinema credendo di sapere esattamente cosa andiamo a vedere. E ciò a cui assistiamo, invece, sconvolge le aspettative, obbliga al rassetto dell’analisi, mette a soqquadro la prospettiva. Magari per questo amo il cinema, ed anche per altre diecimila variabili. Ed ho apprezzato questo District 9, tutto già visto, per carità, in altri mille film, in altri mille telegiornali, in altre mille indagini sociologiche. Ma il gioco è mettere tutto insieme e cacciarci in gola e negli occhi l’ennesimo Punto di vista. Gli alieni in difficoltà in un punto inaspettato della Terra, i rapporti difficili che vanno a pescare nell’eterna diffidenza verso il diverso, mostro o vicino di casa che esso sia, l’evoluzione melo e drammatica applicata con esatta misura in paradossale quantitativo industriale, la Soluzione e l’Epilogo figli di una cinematografia, ripeto, conosciuta ma con un impiego dall’esito spiazzante; come infilare uno squalo nella vaschetta dei pesci rossi e, di più, farcelo nuotare sereno. L’aria da mocumentary, i vaffanculo reiterati, le istanze di sfratto ai “gamberoni”, i doom movement, i cocktail di dna, l’overdose di camera a spalla, lo splatter comunque elegante (e ve lo dice uno dallo stomaco solitamente delicato), le ottime soluzioni digitali, il dolcissimo cucciolo d’alieno, sono, citati a casaccio, tra gli elementi che contribuiscono a smantellare quell’atteggiamento di inconscia autodifesa che mettiamo su in occasioni analoghe (“e andiamoci a vedere ‘staltro di film di fantascienza!”). Ultima nota: qualcuno ha scritto che al termine delle due ore parteggiava per gli alieni brutti, sporchi e cattivi. Io già dopo cinque minuti.
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