Regia di Jonathan Mostow vedi scheda film
Dovrebbe essere un film di fantascienza, ma sui titoli di testa apprendiamo che la storia che segue è ambientata nel nostro mondo, cioè oggi. È la prima trovata geniale di uno svelto e splendido B-Movie che, surrogato esso stesso, s’intrufola nel blockbuster per cambiarne e cambiargli i connotati. Altra scena emblematica è quella in cui una porta si spalanca in una gigantesca fabbrica dove le macchine fanno gli umani: un ribaltamento della celeberrima sequenza di Tempi moderni di Chaplin, una sottolineatura sul destino segnato degli uomini, anzi sacchi di carne, come vengono chiamati nel film gli originali, che invecchiano su sedie virtuali mentre i loro cloni sono fuori a lavorare, a drogarsi (in una maniera tutta nuova e tutta da vedere), a occuparsi delle faccende quotidiane. Tutti belli, biondi, giovani, sorridenti (un sorriso da pubblicità dentrificia, quindi falso), immortali. Meno male che c’è l’agente dell’Fbi Bruce Willis, che dopo una scazzottata che gli consente di risentire qualcosa (il dolore) capisce che è giunto il momento di fermare il mondo e di scendere, di riappropriarsi della propria vita da comune mortale, dove le rughe sono decisamente più affascinanti di un qualsiasi e diabolico microchip. Ricca di sottotesti, l’opera di Jonathan Mostow vale (altresì) come metafora dell’estremizzazione televisiva: se continueremo a non muoverci e a essere dipendenti dalle immagini, la fine sarà nota. E come risposta pre-post-apocalittica al recente (e agghiacciante) Dorian Gray: non può esistere l’elisir di lunga (infinita) vita perché il prezzo da pagare è la neutralizzazione delle emozioni, del sentire, del toccare carneviva. Sarà anche piccolo questo film, ma ha tutte le stimmate del grande e prediletto discepolo di L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel: tramontate le ideologie, annientato il comunismo, ora i nemici di noi stessi siamo noi. Non ci sono più alibi.
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