Regia di David R. Ellis vedi scheda film
Ovvero “il mito di Cassandra declinato secondo le regole narrative dello slasher movie” (filmtv).
James Wong —Final Destination cap. I e cap. III— e David R. Ellis —Final Destination cap. II e questo cap. IV in 3D— , alternando le loro differenti intelligenze creative e veicolandole attraverso il canale saturo eppur sempre fecondo dell'horror movie, hanno fatto salire a quattro (per poi affidare il successivo cap. V a Steven Quale) il numero delle volte in cui la Signora di Nero Vestita, ebbra di furia e armata di biblica pazienza e ostinata perseveranza, si è vista costretta a sguainare la fida falce per riappropriarsi in tutti i modi (leali e soprattutto sleali) del suo sostanzioso bottino deliberatamente sottrattole da sotto quel naso mozzo.
Dopo il fantasy e l’animazione anche l’horror abbraccia interamente la stereoscopia: il divertente remake San Valentino di sangue 3D (2009) è stata la prima pellicola dell’orrore degli anni zero ad essere girata integralmente in tridimensione -a giovarne esclusivamente i gustosissimi trapassi; piatto piattume nelle scene morte, ooops.....-
L’ultimo esempio a riguardo dovrebbe ricondursi a Nightmare 6 - La fine (1991), in cui solo la parte conclusiva —quella narrante il vissuto del mostro maniaco assassino Freddy Krueger, dall’infanzia traumatica per mezzo del padre violento Alice Cooper fino alle aberrazioni consumate nelle trasudanti bollenti caldaie di Springwood— prevedeva l’uso degli occhialini bicolore; bastava inforcarli in contemporanea con i personaggi (superstiti) per immergersi in un trip onirico di tutto rispetto.
E così la IV stagione di questa moderna partita a scacchi con la Grande Mietitrice ci viene (ri)proposta —inesatto parlare di sequel, ciascun capitolo è una variante del racconto originario, riparte daccapo presentando una situazione simile a quella di partenza (il solito disastro classificato come incidente) ma ogni volta diversa— in un notevole graditissimo 3D che amplifica e spettacolarizza le creative dinamiche assassine a effetto domino forti della consueta meticolosa carrellata di dettagli che le mettono in moto, il vero (ed unico) piatto forte di ogni puntata/reboot della saga.
Se in principio fu l'aereo, poi l'autostrada e dopo ancora le montagne russe, stavolta l’ideale teatro di mattanza è rappresentato da un autodromo un po' datato dove il solito gruppo di giovinastri sfugge -per la provvidenziale (?) preveggenza di uno di loro- alla nefanda sorte, trascinandosi dietro il solito seguito di chi in quel momento bazzicava nel loro raggio d'azione.
Intatto nella formula, che si ripete con lo slancio e la puntualità di un cerimoniale, il ‘progetto’ Final Destination brilla di una semplice, felicissima intuizione: tratta della Morte in quanto entità astratta, impalpabile. Eppur percettibilmente presente. Fedele silente discreta compagna nel cammin di nostra vita. Non è ‘qualcuno o qualcosa’ di identificato, da cui difendersi o contro cui combattere. Non si affida a emissari serial killers in carne ed ossa chiamati a fare lo sporco lavoro al suo posto. È la forma di Morte che forse (di certo) temiamo di più perché esula dagli schemi dell’immaginario filmico orrorifico in cui da sempre l’abbiamo vista collocata; è quella che invade la realtà oltre lo schermo, dilagando nel nostro quotidiano. Quella che di più rasenta la concezione umana di cessazione della vita. Quella che se ne sta perennemente in agguato, ovunque e comunque; quella sulla quale è impossibile esercitare il minimo controllo a meno che non si decida di rinchiudersi in una stanza imbottita a prova di trauma e rimanerci a vita (vedi il cap. II) o iniziarsi ad un regime alternativo di vita–non vita (vedi cap.I) dove poter coltivare l’illusoria convinzione di essere finalmente/totalmente al sicuro, fuori dalla gittata delle sue nerissime orbite senza fondo. É la Morte non prevista a breve —sappiamo tutti di dover morire, ma non oggi, non adesso (Gravity)— che dà sfogo alla sua ira funesta reclamando il maltolto; è la Morte accidentale, potremmo dire ‘quella stupida’. Che si fa viva quando ci si trova al posto sbagliato (magari soltanto di un passo indietro) nel momento sbagliato. Quella che più prepotentemente chiama in causa il destino o il caso, la fortuna o la sfortuna, che dir si voglia.
David R. Ellis, in entrambi i capitoli da lui diretti, sfrutta al meglio questo enorme potenziale, questa innata paura ancestrale insita nell’uomo fin dagli albori dell’esistenza. Infarcendoli di una buona dose di macabra ironia. Esasperando, dilatando, ritardando oltremodo l’estremo momento fatale. Mescolando spesso e volentieri le carte in tavola, così da vivacizzare il racconto e smuoverlo dalla rigorosa sistematicità e fissità ripetitiva tipica dello slasher movie, maggiormente riscontrabili nel più cupo e drammatico capo timoniere James Wong.
Sfoggia colori brillanti, cita la serie stessa (l’automezzo che coglie in pieno la vittima designata), si autocita (è infatti il regista di Snakes on a plane), omaggia con un fulmineo frame il celeberrimo occhio tagliato di Buñueliana memoria (allucinazioni, visioni), 'demonizza' i moderni luoghi di vita sociale (piscine club, centri commerciali) e le moderne tecnologie (una visione in 3D fin troppo realistica, l'autolavaggio, le scale mobili, quest’ultime da sempre nel mirino del genere), ammantate da quella coltre di sinistra inquietudine che si mantiene perpetua ed inalterata nel tempo. Converge il suo interesse sull'errore umano (rendendolo interessante materia di riflessione) o meglio, sulla distrazione, la faciloneria, la negligenza, additandoli quale causa prima di decessi altrimenti evitabilissimi, soprattutto sui luoghi di lavoro. Si fa beffardo nel sottolineare come spesso si arrivi al capolinea con le proprie stesse mani o vi si venga condotti dal sangue del proprio sangue. Diabolico e perfido, invece, quando dopo aver rassicurato lo spettatore, sbandierando come antidoti ad una fine tragica e precoce il buon senso e una maggiore accortezza nel muoversi nel mondo, rovescia la medaglia rammentandoci che ogni ragionevole precauzione si frantuma contro il solido muro di un disegno già scolpito dalla notte dei tempi.
Applicare il 3D alle pellicole horror è cosa buona e giusta, in particolare quando questo è concepito con cognizione di causa e non solo per far lievitare il prezzo del biglietto. In questo modo possiamo saggiare ‘di persona’ l'effetto di una scheggia impazzita, il calore ardente del fuoco che tutto investe e distrugge. Conoscere la sensazione della fine che travolge e strappa via.
Memorabili i rimembranti titoli di testa ‘passati a i raggi x’ ed il finale ‘radiografato’ per nulla consolatorio. Godibile.
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