Regia di Jonas Pate vedi scheda film
Quando il quarantenne regista di Raeford, (North Carolina), Jonas Pate, abbandona il fratello gemello Josh, riesce a fare un buon film. Peccato che Jonas abbia rotto il sodalizio due sole volte: nel 1997 con L’impostore (The Liar) con un memorabile Tim Roth e dodici anni dopo con questo Shrink in cui giganteggia Kevin Spacey nella parte di uno psicoanalista ‘attorcigliato’, ‘regressivo’, ‘shrinking’ in seguito al suicidio della moglie.
Henry Carter non sa spiegarsi il motivo del gesto della donna; del suicidio nessuno può dire nulla, possiamo intuire le ragioni di chi si toglie la vita, come hanno spiegato grandi sociologi da Durkheim in poi, ma è certo che chi leva la mano su di sé lascia a chi gli sopravvive, soprattutto al partner, un fardello di dolore, acuito dal dubbio che a quella decisione finale lui possa, in qualche modo, avere contribuito.
Carter è a pezzi, non è in grado di assolvere al compito di curare i suoi pazienti: il manager afflitto dalla paranoia dei germi dovrà cavarsela da solo, altri pazienti - affetti da turbe esistenziali - vedono venir meno il supporto terapeutico. Carter affonda in una depressione inconsolabile che cerca di dominare con un uso massiccio dell’enciclopedia di droghe che un tenero pusher gli offre insieme a una sommessa amicizia fatta di colloqui nei quali il terapeuta apprende la difficile arte del restare a galla nel mare del dolore.
Non c’è alcol o droga che possa giovare, Carter le assume tutte (ketamina, psylocibina, crack, ecstasy), e in questo annodarsi nelle maglie di un oblio sintetico, gli sfugge (o non vuole accettare per orgoglio) l’amore e l’amicizia che i suoi pazienti, gli amici, le donne che ha conosciuto, sono disposti a dargli.
Pate non indulge in sentimentalismi, descrive senza giudicare, si comporta come Ronald Laing nel districare i ‘nodi’ che affliggono l’uomo nel duro percorso dell’elaborazione del lutto.
L’incontro con una giovane paziente, titolare di un analogo dramma, darà a Carter la forza di ‘tornare nel mondo’.
Il tono leggero del film, - una commedia in interni con dialoghi pungenti e divertiti alla maniera del serial In Treatment - non inganni lo spettatore: la scena finale in cui Kevin Spacey mostra il volto solcato dalle ferite dell’anima in un primo piano che dà i brividi: lo sguardo fisso verso lo spettatore, contraddice l’apparente lieto fine:
“No, non passerà mai”, sussurra Carter.
Non passerà mai il dolore della perdita.
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