Regia di Michael Haneke vedi scheda film
“Rimane solo la nostra piccola Eva e ci siamo interrogati a lungo se portarla con noi o se fosse meglio lasciarla con voi. Come puoi immaginare, mamma, e sicuramente anche tu, caro papà, la nostra decisione ci ha causato angoscia e grattacapi. Perché, sebbene siamo sicuri di cosa sia meglio per noi, decidere il destino di colei che amiamo di più al mondo è qualcosa di completamente diverso. Forse vi ricorderete della scorsa Pasqua, quando udimmo quella cantata alla vostra chiesa. Diceva: «Mi rallegro al pensiero della morte». Ed Eva dopo disse: «Anch’io». E voi vi spaventaste tanto. Ne abbiamo parlato molto da allora e so che la morte non spaventa Eva per niente.”
1987: un normale giorno di vita di una famiglia austriaca, composta dall’ottica Anna (Birgit Doll), da suo marito ingegnere Georg (Dieter Berner) e dalla loro figlia Eva (Leni Tanzer). Attualmente vive con loro anche Alexander (Udo Samel), fratello e collega di Anna, nonché vittima di una forte depressione in seguito alla morte della madre. Anna scrive frequentemente lettere ai suoceri che vivono in campagna, sopperendo alle mancanze di Georg. La piccola Eva allarma la sua severa maestra di scuola affermando di essere cieca, mentre Alexander cede ad un’improvvisa crisi di pianto durante la cena.
1988: un normale giorno di vita di una famiglia austriaca. Anna scrive una lettera ai suoceri, nella quale descrive come Georg abbia ricevuto una promozione sul lavoro a discapito di un superiore che non sopportava. Eva lamenta un incontrollabile prurito alla pancia durante la lezione scolastica, senza ricevere l’attenzione che tenta di richiamare. Durante una serata piovosa, la famiglia passa con l’auto sul luogo di un incidente mortale, dove giacciono ancora i corpi coperti da teli; una vista che suscita qualcosa in Anna, in lacrime fra le spazzole dell’autolavaggio.
1989: stavolta è Georg a scrivere ai suoi genitori e il contenuto della sua lettera non lascia presagire nulla di buono. La rigida routine della famiglia subisce delle deviazioni: Georg si licenzia dal lavoro e acquista con Anna martelli, seghetti e forbici. I due coniugi ritirano poi tutti i loro soldi dalla banca e vendono l’automobile, dicendo che stanno per lasciare il paese e partire per l’Australia. Ma il loro progetto è in realtà assai più terribile…
“Volevo raccontare la storia dal momento in cui lui si suicida con dei flashback della vita. Ci ho lavorato su per sei settimane e non sono arrivato da nessuna parte perché ogni flashback costituiva una spiegazione. Ad un certo punto, ho capito che non potevo raccontarla così se volevo mantenere inquietante il segreto. Ho deciso di usare una specie di protocollo: tre anni, un giorno [per ognuno] e vediamo cosa succede. Sta allo spettatore trovare le sue risposte.” [Michael Haneke]
“Der siebente Kontinent” rappresenta l’esordio cinematografico di Michael Haneke, che eppure nel 1989 non è che fosse proprio un giovanotto di primo pelo: aveva difatti 47 anni e proveniva dal mondo della critica e della regia televisiva austriaca, nonché da pregressi studi di filosofia e psicologia; alle spalle anche una famiglia di attori ed un tentativo di intraprendere la carriera recitativa.
Ispirato da un fatto di cronaca reale, il suo primo lungometraggio è già un folgorante archetipo di quello che sarà il suo cinema, talora tacciato di cinismo e freddezza. “Der siebente Kontinent” è a dir poco glaciale, ma non è certo il caso di ritenerlo un difetto. Haneke ritrae la routine della famiglia tipica dei paesi ricchi, industrializzati, (post-)moderni: afflitta da alienazione, ripetitività, problemi di comunicazione, bloccata nell’inesorabile ripetizione di abitudini e gesti quotidiani. Svegliarsi alle 6, preparare il caffè e il latte con i cereali per la figlia, spalmare qualcosa di dolce su pane e cracker, dare il mangime ai pesci nell’acquario, allacciarsi le scarpe, andare al lavoro, parcheggiare l’auto, magari andare all’autolavaggio. “La loro vita è la somma di quei gesti” – dice Haneke.
Per svariati minuti il film non mostra alcun volto, soffermandosi sulla meccanicità dei gesti operati da persone abituate non a vivere, ma ad eseguire, ripetere, consumare; anche banali attenzioni, cure o affetti – come mettere a letto la figlia e farle recitare la preghiera – denotano distacco e programmaticità.
In “Der siebente Kontinent” sono glaciali persino le transizioni da una scena all’altra, consistenti in circa tre secondi di schermo nero. Il montaggio sembra rendere eterno l’asettico ripetersi delle azioni quotidiane, quando in realtà il film è ambientato in un solo giorno per i primi due anni dell’arco narrativo. I fatti del 1989, invece, vengono introdotti da un’enigmatica lettera di Georg recitata dalla voce off, che lascia subodorare un’orribile decisione. La molla è rappresentata dal repentino proposito di partire per l’Australia, vagheggiata e modellata sulle rimembranze di un cartellone pubblicitario visto uscendo dall’autolavaggio. Ma l’immagine, a più riprese ricorrente, è idealizzata e inquietante: ottenuta sovrapponendo parti di tre foto diverse, essa rappresenta uno scenario in cui onde del mare, deserto e montagne si incontrano in maniera irrealizzabile.
In vista della partenza, la famiglia avvia un certosino lavoro di distruzione di tutto ciò che possiede e che la tiene legata a quella vita: dai disegni di Eva all’acquario dei pesci, passando per i risparmi ritirati dalla banca ed eliminati con lo scarico del water (immagine fortissima, di cui Haneke seppe subito percepire la portata scandalosa). È una distruzione che però non è mai liberatorio abbandono ad una pulsione: è ancora una volta una serie di gesti meccanici, sistematici, calcolati. È in questa fase, ovvero nella mezz’ora conclusiva, che “Der siebente Kontinent” si avvia inesorabile verso un finale a lungo immaginato, ma così tremendo, doloroso ed inspiegabile da lasciare comunque senza parole. Cinema durissimo, ma forse necessario.
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