Regia di Michael Haneke vedi scheda film
HANEKE – VOL. 1
In tre parti volutamente sezionate e scandite per anno (dal 1987 al 1989), il film si concentra sulla normale routine che caratterizza la vita di una famiglia borghese negli anni immediatamente precedenti il decennio ’90: madre, padre e figlia bambina ripresi nelle ordinarie vicissitudini giornaliere, dalle quali emerge, sempre più emblematicamente e chiaramente, il disagio che ognuno di loro accusa nei confronti della incolore quotidianità che caratterizza le infinite e sempre uguali giornate, siano esse trascorse al lavoro, come a scuola.
Scandite da un ricorrente meticoloso lavaggio di automobile – operazione che viene eseguita con i tre familiari all’interno, che provano quasi una sensazione di sollievo, di protezione, pur mai dichiaratamente ammessa, in quel trascorrere indolente di quei pochi minuti in una gabbia coperta e al di fuori di ogni responsabilità che li affligge e sottilmente li annienta poco per volta.
E se la figlia inizia a dichiararsi improvvisamente e assurdamente cieca a scuola durante una lezione, quasi a lanciare un urlo d’attenzione scagliato contro tutta l’indifferenza che la circonda ed opprime, poco dopo i genitori si impegnano a scrivere una lettera ai nonni in cui raccontano il proposito di trasferirsi in Australia per cambiare vita.
Per questo motivo chiudono ogni conto, si licenziano, e, armatisi di oggetti contundenti, distruggono ogni indizio di vita ordinaria, tramutatosi in un incubo ad occhi aperti.
La sorte dei tre, manco a dirlo, sarà la più tragica che si possa intuire se solo un poco si conosce l’autore.
Prima incursione, in età già matura, nel mondo del cinema e del lungometraggio, dopo ben 10 lavori concepiti per la televisione. Haneke punta già dal suo esordio il suo sguardo aguzzo e pungente, oltre che tecnicamente ammirabile ed inquietante nei contenuti, sul disagio incontenibile del vivere nell’era moderna delle comodità e della sicurezza che uccide le emozioni, lasciando subentrare al suo posto l’angoscia del non sapersi più ritrovare all’interno di una vita sicura, agiata, ma che non riesce più a regalare emozioni o momenti anche fugaci di piacere.
Affrontare questa angoscia significa scegliere la soluzione più drastica ed inquietante che si possa pensare.
E l’inquietudine che Haneke riesce a comunicare è palpabile, e cresce nello spettatore, sconvolto da immagini e situazioni che è difficile dimenticare: tra queste citerei, da una parte, l’immagine idilliaca ricorrente del paesaggio australiano come meta irraggiungibile e paradisiaca oltre ogni possibilità di immaginazione, e come devastante contraltare, quella della macchina che inquadra, per interminabili terrificanti minuti, un flusso di banconote tagliate e gettate nello sciacquone per potersene disfare, simulando magari, così facendo, nella mente deviata dei due coniugi, un tentativo di rapina che possa in qualche modo giustificare, o rendere almeno più comprensibile, il micidiale gesto finale che i due coniugi si appresteranno a compiere poco dopo.
L’inquadratura centra per minuti instancabilmente e senza pudore alcuno il gorgo d’acqua del water, nel quale una mano si ostina a far convogliare le banconote che finiscono per ostruire il percorso ed intasare il sistema di scorrimento: un’immagine devastante, sporca, disperata, volgare che lascia il segno.
Un esordio, quello di Haneke, lucido e calibrato come lo saranno i capisaldi della propria cinematografia a seguire, che manterrà il suo interesse soprattutto nei confronti del ceto medio-alto, sottoposto allo stress inaffrontabile di vincere le tendenze suicide che lo affliggono ogni qualvolta esso deve confrontarsi con la disarmante e micidiale quotidianità.
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