Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Anna e Georg si svegliano tutti i giorni alla stessa ora, fanno colazione insieme alla figlia Eva davanti a una tavola ben imbandita, poi, la bimba a scuola, si dirigono verso le rispettive professioni: lei oculista, lui dipendente di un’azienda e in procinto di diventare capo. La prima che, come un sismografo, segnala che in questa normalità - normalità per antonomasia - si sta formando qualche crepa è la bambina: un giorno si finge cieca a scuola, oppure si gratta continuamente, senza ragione. È una inconscia quanto drammatica richiesta d’aiuto, che cadrà nel vuoto: i suoi genitori hanno già deciso di sterminarsi, e di portarla con sé nel buio.
Ben prima di Funny Games, il suo film più famoso, Haneke mostra come la violenza - che sia autoinflitta o rivolta verso gli altri - non ha bisogno di spiegazioni, esiste e basta, e come un vortice trascina tutto ciò che trova nel vuoto. In questo caso, però, è possibile almeno capirne la genesi: è proprio la normalità stantia e soffocante in cui la famiglia vive a covare in sé i germi di una malattia latente. Ad Haneke bastano poche immagini per rappresentarla: una vita sempre uguale, giorno per giorno, fatta di rituali essenziali quanto alienanti, come quello del lavaggio della macchina: le spatole che girano, lo sporco che viene via, e intanto i componenti della famiglia, all’interno dell’abitacolo, immersi nel silenzio, a contemplare l’involucro di una esistenza che pare destrutturata di ogni emozione positiva, imbevuta d’angoscia. La réclame dell’Australia e del mare, sullo sfondo, altro non è che l’illusione di un continente troppo distante: ne esiste un altro più vicino, che è possibile raggiungere, per fuggire da tutto, con una dose letale di medicinali. Haneke non ha bisogno di inventare nulla per rappresentare l’orrore che nasce dalla pacata tranquillità borghese: il suo film d’esordio è tratto da un reale episodio di cronaca.
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