Regia di Michael Moore vedi scheda film
Castigat ridendo mores (dicevano gli antichi romani, citati, peraltro, per altre ragioni, fin dalla prima scena).
Ma non in questo caso.
M.M. ha sempre fatto cinema politico.
Parlare della società americana, delle storture della propria legislazione, ovvero dell’impatto devastante che questa ha (soprattutto quando assente) sul popolo americano; comprenderne le cause; eseguire attività di “benchmarking” puntando lo sguardo altrove, anche solo sull’esperienza europea, proporre nuovi punti di vista “anticonvenzionali” per i capisaldi culturali americani ecc.
Questo è il cinema di Moore.
Capitalism. A love story si inserisce pienamente i questi canoni stilistici, anzi: affonda il coltello nella piaga più calda d’America, quella che sta a cuore maggiormente al popolo americano e quella che pure a lui (M.M.) sta più a cuore (per uno nato e venuto da Flint – città della G.M. - ciò che oramai è notorio).
L’economia in ginocchio.
Il dollaro (motore del mondo)… che manca nelle tasche.
La proprietà privata (uno dei sacri pilastri del capitalismo) demistificata dal crollo del valore e dagli sfratti, persa in un baleno.
Il reddito proporzionato al proprio successo professionale.
I buoni alimentari per compensare i salari da fame.
Finanche un’ondata di licenziamenti (spesso senza un congruo preavviso).
E tanto, tanto altro.
Il capitalismo è al centro del bersaglio che punta il regista (sceneggiatore e produttore)… eppure è un centro un po’ sfocato. Bersaglio di critiche grottesche, più che argute e ficcanti.
Mi aspettavo un’analisi un po’ più lucida e chiara; più descrittiva che invettiva; più attenta a cogliere il fenomeno che non a demonizzare un’entità astratta, che in più occasione, infatti, viene identificata nel Male assoluto (sic!) e stigmatizzata a suon di (metaforiche) torte in faccia. Moore come il giullare moderno che schernisce i potenti, non ha interesse al confronto dialogico. Semplicemente si lascia andare ad una denuncia appassionata ed emotiva, smaccatamente di parte, ciò che, per certi versi, era inevitabile; d’altronde la tesi avversaria è del tutto indifendibile.
Ciò non toglie che esistevano diverse possibilità di descrizione della tesi ed argomentazione della stessa. M.M. sceglie la strada più ad effetto (oserei dire anche “populista”) ma non so quanto utile (a soddisfare esigenze di vera comprensione; a spostare davvero i consensi da una parte socio-politica all’altra); una strada, peraltro, un po’ tortuosa, che parte dalla crisi nera del mercato immobiliare… e vi ritorna solo dopo aver fatto un denso excursus sulle macerie dell’economia reale.
Quella, appunto, degli avvoltoi (l’ultimo anello della catena alimentare) del mercato immobiliare (le società immobiliari specializzate nella compravendita delle case pignorate).
Quella in cui, per pagarsi un’istruzione universitaria, occorre indebitarsi per i decenni a venire.
Quella in cui l’amministrazione della giustizia cede al privato la gestione dell’esecuzione della pena, incentivando la repressione penale a tutti i costi (magari anche dietro lauti compensi) a scapito di soluzioni rieducative meno traumatizzanti.
Quella dove i piloti di aerei, fanno affidamento sui sussidi alimentari (!!).
Quella in cui i dipendenti bassolocati delle grandi multinazionali si vedono assicurati (sulla vita) dai propri datori di lavoro (non ci posso credere; a loro insaputa!)… i quali (piccolo dettaglio) sono anche i beneficiari, ergo gli interessati alla verificazione dell’evento morte (il rischio contro cui teoricamente tutelarsi).
Quello in cui non resta più alcunchè (una distesa desolata!) della grande fabbrica che ha dato da mangiare a suo padre ed alla sua famiglia (di M.M.) e dato prosperità ad una Nazione intera.
Una descrizione del capitalismo (almeno nella prima parte) fatta per esempi; resti macabri che fanno, del capitalismo, un’autentica tragedia. Casi emblematici, assai efficaci, ma che descrivono una sciagura dal perimetro molto ampio (se non troppo).
Non c’è solo il libero mercato e la concorrenza feroce, che premia i migliori e umilia chi non sta al passo. C’è la corruzione del potere politico dalle lobbies private. C’è l’asservimento alle logiche private fondate sul credo della massimizzazione del profitto. C’è lo stigma della Chiesa cattolica (avverso il pensiero protestante dominante, che benedice la ricchezza come segno della benevolenza divina) e c’è l’esautorazione di un intero popolo dalle stanze del potere, occupate da una plutocrazia che decide a favore di pochissimi, a discapito di tutti gli altri (ad eccezione di quelli, fra i molti, che bramano di poter entrare nel club dei pochi).
Tutto ciò viene reso evidente quando l’analisi (per modo di dire) si sposta sul fronte della grande finanza, il vero responsabile della crisi finanziaria che ha fatto scattare l’indignazione collettiva ed accendere nuovamente la telecamera di Moore.
A questo punto il tema centrale dell’inchiesta non cambia, ma finalmente vengono puntati i riflettori sulle cause, vengono svelati gli altarini, vengono scoperti gli intrecci politici, vengono evidenziati i conflitti di interesse, viene seguita la traccia dei soldi dirottati (in particolare con una legge proposta dal Ministro del Tesoro di Bush junior e approvata nell’autunno 2008), dalle tasche dei contribuenti americani, nelle tasche delle principali banche d’America (circa 700 miliardi di dollari) con la scusa di arginare l’emorragia e salvare baracca e burattini.
Tutto questo quando ci avevano insegnato fino ad un giorno prima che il prezzo del libero mercato è il fallimento degli incapaci. Che il liberismo è bello e buono. Che lo Stato deve chiamarsi fuori dalle (scarne) leggi del mercato (finanziario in primis). Che la regolamentazione è un tabù odioso, che deprime la libertà d’impresa e soffoca le prospettive del successo (individuale).
Poi ti svegli una mattina e scopri che i neocon accoliti del pensiero neoclassico hanno preferito togliere a molti per dare a pochi (senza preoccuparsi neanche che quelle immani iniezioni di liquidità venissero utilizzate per finanziare gli investimenti e rilanciare l’economia!); (detto altrimenti) privatizzare gli utili e socializzare le perdite (come sempre accade, quando si abbassa la guardia).
Ma scopri anche che fuori dalle sliding doors che regolano gli accessi fra Goldman Sachs ed il Ministero del Tesoro U.S. c’è un'intera America che medita giustizia (più che vendetta).
Con la tessera elettorale in mano (fin tanto che esiste ancora una parvenza di democrazia), pronta a votare per il cambiamento
Alla prossime elezioni del 2008.
… E, in fondo (ma davvero in fondo), lo stesso, fatti i debiti mutamenti, dicasi 8 anni dopo.
Anche se a molti non è ancora chiaro che le posizioni del nuovo inquilino della Casa Bianca sono più che altro allineate a quelle di R.Regan.
E questo non è affatto un buon segno (giusta quanto detto, e soprattutto visto, finora).
Provaci ancora Michael (la strada è quella giusta)!
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