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Capitalism: a love story

Regia di Michael Moore vedi scheda film

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La recensione su Capitalism: a love story

di mm40
4 stelle

La qualità dei lavori del Gabibbo americano (più per la mole che per l'incisività dei suoi interventi) procede in maniera inversamente proporzionale alla sua popolarità: ed infatti, giustamente, questo Capitalism, a love story è passato piuttosto inosservato, quantomeno rispetto ai suoi precedenti 'documentari'. Anche qui 'documentario' è una parola usata assolutamente a sproposito, poichè Moore utilizza metodi alquanto discutibili per sostenere le proprie tesi: sparacchia cifre a raffica (lamentandosi poi con grassissimo sarcasmo se un operatore finanziario non sa spiegargli in poche e semplici parole cosa sia un 'derivato', argomento certo non alla portata di tutti), non cita le fonti e quando le cita raramente sono significato di immediata autorevolezza, costruisce le scene ad hoc per creare patetico e indignazione: e questo si chiama sensazionalismo, si guarda bene dal proporre un contraddittorio, se non per fare qualche sberleffo che non va oltre la manciata di secondi. Insomma, il principale difetto di Moore è che pretende di combattere i mali degli Stati Uniti d'America essendo americano al 101%: com'è possibile che giri continuamente attorno al nocciolo della questione (il sogno americano, il consumismo come tara mentale, la smania di successo a stelle e strisce) senza mai arrivare a parlarne? Perchè nella sua mentalità, appunto, il colpevole è quel brutto mostracchione deforme del 'capitalismo' (qualunque cosa sia: una specie di crudele ed avido fantasma che aleggia nell'aria), lui e quegli speculatori cattivoni che per puro piacere personale mettono in piedi le truffe e gli sfratti. Purtroppo se la crisi in America è perfino peggiore che da noi in Italia (leggasi pure Europa) è problema riconducibile innanzitutto ad una questione di impostazione mentale: gli statunitensi sono sempre stati discretamente bene a livello economico, non hanno neppure idea di ciò che stanno vivendo; e per di più il loro spirito pioneristico ed avventuriero va a nozze con il capitalismo (è davvero possibile che un famoso miliardario come Moore, con un'equipe di studiosi alle spalle, ignori completamente un testo base della sociologia quale L'etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber?), che di per sè è solo e semplicemente un modello economico - e l'unico che la storia dell'umanità ha dimostrato poter funzionare sul pianeta, peraltro: qualcuno lo spieghi a Moore, magari con dei fantocci animati e facendogli smorfiette e ghigni sardonici, cioè comunicando con il suo linguaggio. Sempre in cerca della soluzione spettacolare, della battutella ironica, della provocazione futile, del motto populista, il regista-protagonista è attentissimo ad inquadrarsi di continuo, a parlare di sè, a mostrare vecchi spezzoni dei suoi film passati o delle sue riprese amatoriali da ragazzino (!), dimenticandosi infine di generare uno spunto di risposta alla problematica trattata, che pure è reale e che pertanto in un certo senso nobilita il suo Capitalism: a love story, lo rende un lavoro potenzialmente utile. Come suo massimo colpo di genio, Moore cita ad un certo punto il sistema produttivo delle cooperative come esempio virtuoso: provi a fare lo stesso in Italia e ci faccia sapere. 4/10.

Sulla trama

Gli Usa entrano in una profonda crisi economica: di chi è la colpa? Ma certo, del 'capitalismo'. Michael Moore, il Gabibbo a stelle e strisce, prende i suoi cameramen e li trascina di peso a riprenderlo mentre fa smorfie, boccacce e lancia accuse arbitrarie davanti alle sedi di grosse banche, istituti finanziari e perfino Wall Street: ecco, questa sì che è una soluzione alla tragedia.

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